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-o- Too late to die young -o-
7 Marzo 2012

La Cattedrale di Salomone

Cattedrali, templari, tesori, e conoscenze perdute.


Riferendoci a questioni irrisolte del passato, si tende spesso ad abusare del termine “mistero”, cercando a volte connotazioni “misteriose” anche laddove tale necessità non appare impellente.
Così, quando ci imbattiamo realmente in fatti difficilmente spiegabili con le nostre attuali conoscenze, viene a mancare il termine adatto per riferirsi ad essi.
Uno di questi casi riguarda certamente la complessa questione dell’edificazione delle grandi cattedrali gotiche che sorsero in contemporanea nell’Europa centro settentrionale nel corso del XII e del XIII secolo.
Strutture architettoniche poderose, tali da lasciare perplessi persino gli ingegneri nostri contemporanei, questi maestosi templi di pietra vennero innalzati nel giro di pochi decenni in diverse città europee, sopratutto francesi e tedesche, introducendo ex novo delle soluzioni architettoniche praticamente sconosciute nel nostro continente, come l’arco a sesto acuto, gli archi rampanti oppure le volte a costoloni.
Le questioni quindi ancora irrisolte riguardo queste uniche costruzioni riguardano essenzialmente due campi: quello tecnologico e quello economico.
Come furono apprese le conoscenze necessarie per l’edificazione di tali edifici, e come furono trovati i fondi necessari per la loro costruzione?
Queste domande hanno ispirato l’articolo che segue, scritto dall’amico Pike Bishop, e pubblicato sul sito del Portico Dipinto.
Nella seconda parte dell’articolo, che invito a leggere direttamente sul Portico, viene anche avanzata una ipotesi orginale ed alquanto interessante sul quale fosse realmente il celebre Tesoro dei Templari.


La Cattedrale di Salomone

di Pike Bishop

[…]
La cattedrale di Bourges è stata con tutta probabilità la prima grande cattedrale gotica ad essere terminata (i lavori cominciarono pressapoco all’epoca dello stabilimento della fabbrica di Chartres) ed è particolare per la sua pianta che non è cruciforme.
Bourges è grossomodo nel centro geografico del grande paese europeo e ne è stata la capitale per lungo tempo proprio in virtù di questo fatto.
Era già un centro importante ai tempi della campagna di Giulio Cesare e i suoi abitanti (che probabilmente erano più o meno lo stesso numero che sarebbero poi stati nel medioevo, circa 15.000) non sfollarono e non applicarono la dottrina della terra bruciata di Vergingetorige, sicuri della solidità del loro unico muro di difesa e della impraticabilità delle paludi che la circondavano da tre lati, come insegna Kurosawa nei 7 samurai.
A differenza dei giapponesi del film, la banda di delinquenti romani era dotata di ferrea disciplina e riuscì ad abbattere la formidabile muraglia: tutti gli abitanti (tranne gli 800 che si rifugiarono nelle paludi) furono trucidati, e la città distrutta.
I Romani però compresero l’ottima posizione geografica e la ricostruirono come città romana erigendo un tempio sulle rovine del precedente tempio pagano.
In epoca cristiana una cattedrale in stile romanico fu eretta al di sopra del tempio romano, ma nel secolo XII si rivelò troppo angusta per la cittadina che aveva nel frattempo raggiunto di nuovo i 15.000 abitanti.
O almeno questa è la versione ufficiale che giustifica la costruzione di una nuova cattedrale.
Tenete in conto che 15.000 anime non sono certo una metropoli, che la chiesa non era nemmeno una parrocchia ma solo la sede dell’arcivescovado, che non era mai stata meta di pellegrinaggio (e mai lo sarà, tranne per il sottoscritto ed i soliti turisti giapponesi) e non conteneva nessuna reliquia che ne giustificasse il pagamento del biglietto per l’ingresso, che non ci fu mai.
Come per l’altra ventina di cattedrali gotiche spuntate tutte assieme con tecnologie che paiono improvvisamente portate da un uomo su una torta fiammeggiante che disse vi chiamerete Beatles, con la “a”, il problema principale (se credete nell’omino della torta) non è tanto dove avessero preso la tecnologia sconosciuta, ma da dove arrivassero i soldi per pagare un esercito di lavoratori altamente qualificati che venivano da ogni parte d’Europa per un centinaio d’anni e procurarsi e trasportare una mole di materiale che sarebbe bastato per una piccola (ma neanche tanto) piramide egizia.

E’ già difficile capire come l’arcivescovo Henry De Sully potesse giustificare una impresa titanica di quel tipo (al confronto TAV e ponte sull Stretto sono abbastanza economici) considerando anche che i pellegrini non sarebbero fioccati anche perchè pressapoco allo stesso tempo si stavano realizzando un’altra ventina di progetti analoghi nel centro-nord della Francia, ma è inconcepibile pensare in che modo si sarebbero potuti raccogliere i fondi in un periodo economicamente non particolarmente florido e nel mezzo di continue dispute militari, anche esse molto costose.
Quindi i problemi – o misteri, se siete più inclini all’occulto – essenzialmente sono due: quello economico e quello tecnologico.
A quello tecnologico si è cercato di rispondere, specie negli ultimi anni con ogni sorta di teoria – e badate bene, quella dell’omino sulla torta fiammeggiante non è neanche la più bislacca.
Dopo una preventiva epurazione delle teorie più folli, i casi si restringono di nuovo a due: o la tecnologia è stata inventata di sana pianta mentre stavano costruendo St. Denis o l’hanno appresa da qualche altra parte.
La prima ipotesi non sarebbe da scartarsi se si fosse stati in un periodo particolarmente fecondo della cultura europea.
Purtroppo non era così, anzi, piuttosto, il contrario: c’era una tale crisi di idee e di mezzi che si scelse di finanziare (molto poco) un’impresa folle di attacco all’Islam più che altro per sbarazzarsi di gente che non si voleva tra i piedi e di nobili che avrebbero solo seminato morte e distruzione per l’Europa.

A questo proposito, però, spicca la differenza tra i crociati e un piccolo manipolo di nove uomini, tutti parenti o relazionati con Bernardo di Chiaravalle (abate sull’orlo del crollo finanziario la cui abbazia era stata donata proprio dalla famiglia di uno dei nove, i De Champagne signori di Troyes, alla cui corte nacquero i Troubadours e la leggenda di Re Artù e che incoraggiavano la presenza di ebrei e studi cabalistico-esoterici) che si recarono all’Outremer per prendere possesso delle “stalle” di quel che si pensava essere ciò che restava dell’antico Tempio di Salomone a Gerusalemme.
I cavalieri restarono a Gerusalemme per 9 anni e nessuno ha mai trovato traccia di documenti che ci spieghino cosa ci facesse lì un ordine cavalleresco formato da nove membri che non accettavano proseliti e che non combattevano o facevano niente che sia mai stato riportato.
Tutto questo è ampliamente conosciuto ed è stato scritto già da tutti gli emuli di Dan Brown in tutte le salse, tutte melense e di pessimo gusto.
Qualcosa però questi cavalieri avevano portato a casa di sicuro visto che l’ordine improvvisamente divenne ricchissimo, potentissimo e creò innovazioni in campo finanziario.
Allo stesso tempo la tecnologia europea fece un balzo incredibile all’indietro, nel senso che tecnologie romane non utilizzate da un mezzo millennio vennero utilizzate di nuovo improvvisamente proprio per costruire le cattedrali (la gru propulsa dalla ruota da criceto con operaio cricetato, il maglio automatico ad acqua e via elencando) e parimenti in avanti con tecnologie di cui non si ha notizia precedente come quella dell’arco ogivale e del soffitto a doppia crociera delle cattedrali gotiche fiorite proprio nei paesi di origine dei 9 cavalieri.


Ora, se questa tecnologia, come alcuni dicono sia frutto di segreti appresi nelle stalle del Tempio di Salomone, non è dato sapere.
Ma non c’è alcun dubbio che i 9 cavalieri siano connessi con la nascita repentina delle cattedrali.
Se andate dalle parti di Urfa, l’antica Edessa, capitale di un regno crociato e luogo di nascita di Abramo, troverete delle rovine romane ma anche altre molto più antiche che secondo l’archeologia ufficiale, badate bene, non quella alternativa, sono risalenti a 11.000 anni addietro.
Nel mezzo si trovano resti non datati in cui si possono distinguere chiaramente archi ogivali. Che anche il famoso Tempio di Salomone fosse costruito come una cattedrale gotica?


Sembrerebbe di si. Le dimensioni di Notre Dame di Parigi e di Chartres ricalcano fedelmente quelle che la Bibbia attribuisce al tempio.
Bourges, che non ha la forma a croce, sembra di tutte quella più somigliante.
Viene inoltre da pensare che le due famose colonne del Tempio che vengono ricordate nella mitologia massonica potessero essere invece le due torri delle cattedrali: probabilmente le si è sempre chiamate colonne solo perchè tempio, a tutti, ha sempre ricordato l’architettura greca classica.
Altre menzioni massoniche ci ricordano che nel tempio (e nelle cattedrali) visto il lungo tempo in cui le impalcature dovevano restare erette, formassero una struttura dall’aspetto niente affatto provvisorio e ci fossero più piani (almeno due secondo la lettura massonica della tavola del secondo grado) di legno collegati con scale dotate di alzata, pedata e balaustra.
Altra notevole similitudine, sempre secondo il rituale massonico, il rosone e la posizione del Sancta Sanctorum, esattamente quella della Cattedrale di Bourges, il che può significare solo due cose: o il Tempio era come Bourges o i massoni hanno ricostruito la loro versione del tempio adattandola a ciò che conoscevano, cioè le cattedrali.
Ma ciò farebbe in ogni caso pensare che la Massoneria non sia così recente come si suole pensare.

continua

si veda anche:
Stelle e Cattedrali
Nostra Signora di Chartres

4 Marzo 2012

Il Sacrificio, ieri e oggi

Chac Mool
Il sacrificio, come l’etimologia del nome stesso indica (sacrum facere), rappresenta l’atto più sacro all’interno di ogni religione, l’elemento fondante attorno al quale ogni credo si sviluppa.
Nella religione vedica, tutti gli esseri viventi ebbero origine dal sacrificio di Purusha, l’Uomo Primordiale, smembrato dai Veda nell’atto di creazione del mondo.
Questo smembramento è simbolo del passaggio dall’unità al molteplice, l’atto necessario affinché il mondo materiale possa iniziare ad esistere: si tratta di un passaggio che si ritrova in tutte le cosmogonie religiose dell’antichità, patrimonio comune della conoscenza condivisa dall’umanità delle epoche passate.
Il rito sacrificale, quindi, condiviso dalle religioni del passato e del presente, ricrea e ripete ogni volta quel sacrificio primordiale, il momento di divisione e di sofferenza con cui la realtà ebbe inizio.
Scopo principale del rito è infatti ricreare nel mondo materiale le realtà celesti, e ripercorrere in terra le azioni dei mondi superiori, creando un legame tra le diverse dimensioni dell’essere in un momento in cui il tempo e le distanze cessano di esistere.
Questo elemento fondante non manca nemmeno nel Cristianesimo, la cui dottrina si fonda sul Sacrificio per eccellenza, quello del Cristo Figlio di Dio.
Il Cristo ripercorre col suo gesto il sacrificio originario, ricrea in sé la divisione primordiale che condusse dall’unità al molteplice, ed in una dimensione a-temporale chiude il ciclo della creazione stessa.
Da questo punto di vista, per la religione cristiana non vi potrà più essere alcun sacrificio dopo quello di Gesù, dal momento che nella sua figura si compie il ciclo della divisione originaria, ed in sé il Figlio di Dio ricompone lo strappo dell’inizio dei tempi.

Nelle epoche passate, e anche in quelle presenti, come si vedrà, questo rito oscillò spesso tra un richiamo simbolico ed un crudo realismo, laddove nel tempo diverse culture non esitarono ad “utilizzare” esseri viventi, animali ed anche uomini, per portare a termine il rituale.
Il sacrificio umano era comune nelle popolazioni semitiche dell’antichità, nelle culture precolombiane dell’America centrale, ed anche nelle popolazioni che abitavano il continente europeo prima dell’arrivo delle stirpi indoeuropee.
La commistione tra piano simbolico e piano contingente può infatti avere come esito un approccio confusionale nei confronti del rito stesso, una degenerazione che dal piano religioso porta a quello magico: questo è propriamente ciò che accadde in quelle culture che nel ricreare il sacrificio originario dell’ Uomo Primordiale ricorsero a dei sacrifici umani veri e propri.
L’aspetto simbolico lasciò il campo a quello “magico”, e l’atto in sé acquisì una valenza diversa, utilitaristica e “materiale”.
Tale processo rappresenta un aspetto comune in diverse tradizioni, laddove nel termine del loro ciclo terreno all’antica sapienza si sostituiscono il richiamo magico e la superstizione, che come il termine stesso indica rappresenta ciò che rimane di un’antica conoscenza nel momento in cui si smarrisce il suo significato più profondo.

Per comprendere il modo in cui il concetto di sacrificio ha assunto nel tempo una ulteriore valenza, è bene ricordare come il piano simbolico si contrappone a quello magico-utilitaristico.
Nel primo caso, come già accennato, il rito rappresenta quel momento in cui la dimensione temporale si annulla, e si ricrea in terra l’azione celeste, unendo in questo modo le due realtà e creando un legame tra i diversi mondi.
Nella visione magica, al contrario, il rito assume anche uno scopo “utilitaristico”, e per mezzo del suo compimento gli officianti si attendono un responso: l’atto magico è propriamente questo, infatti, ovvero l’attendere un fenomeno a seguito di una propria azione rituale, in contrapposizione con la teurgia, che invece mira solo a stabilire un ponte tra ciò che è tangibile e ciò che appartiene ad un piano superiore.

I sacrifici umani, di conseguenza, appartengono al piano magico-utilitaristico, e sono sempre stati effettuati nella convinzione di poter per mezzo di essi ottenere benefici materiali in questo mondo.
Il sacrificio di Ifigenia narrato nell’Iliade, l’uccisione di migliaia di prigionieri di guerra eseguiti dai sacerdoti Aztechi, i bambini immolati al Dio Moloch dalle antiche popolazioni semite, ogni sacrificio umano di cui la storia ci porta notizia venne compiuto in attesa di una contropartita contingente.
Secondo le scienze magiche, infatti, nell’atto del sacrificio entrano in gioco potenze psichiche dirompenti, e l’energia vitale della vittima può essere indirizzata affinché si possa compiere il proprio scopo, che si tratti di stimolare i venti che aiutino la partenza delle navi, di allontanare la fine del mondo, oppure di affrettarla.
Aleister Crowley,il principale mago ed occultista del novecento, descrisse nel dettaglio il modo in cui i sacrifici umani debbano essere compiuti, affinché le energie vitali liberate potessero essere ottimamente convogliate ed utilizzate, così come la teosofa Alice Bailey, madrina della New Age, non mancò di ricordare come queste forze psichiche liberate dalla morte di milioni di persone potessero aiutare e favorire il tanto agognato processo del “passaggio di era”.

I sacrifici, quindi, lungi dall’appartenere alle civiltà del passato, continuano ad essere officiati anche nei nostri tempi, in modi invero più subdoli ed assai meno visibili, rispetto ai tempi antichi.
La nuova religione luciferiana che nei nostri tempi si sta imponendo, in maniera sempre più evidente, necessita infatti di grandi quantità di queste “energie vitali”, affinché i suoi scopi possano essere raggiunti.
Il rito per eccellenza di questa nuova religione ebbe luogo l’11 Settembre del 2001, il giorno in cui migliaia di persone perdevano la vita all’interno delle due colonne del vecchio tempio che crollava, propiziando con il loro sacrificio l’edificazione del Nuovo Tempio spirituale che dovrebbe fare da suggello al Nuovo Ordine.

Ma riti sacrificali di stampo magico continuano a verificarsi ogni giorno, con continuità in ogni parte del mondo.
Sacrifici più o meno potenti, spesso portati avanti in maniera ignara da officianti inconsapevoli.
Sempre Crowley,  sottolineava nei suoi libri come la vittima sacrificale per eccellenza fosse un bambino, dal momento che la sua purezza poteva garantire un forte “rilascio” di energie psichiche: secondo questa visione, di conseguenza, le forze vitali più potenti vengono ottenute per mezzo dell’uccisione di infanti, e risultati ancora maggiori si potranno avere se il bambino non è ancora stato nemmeno “contaminato” dal mondo esterno, ed ancora vive all’interno del grembo della madre.
Ecco quindi che quello del feto risulta il sacrificio più potente, dal punto di vista magico.
Forse, la tragedia dei milioni di aborti compiuti al mondo ogni anno, potrebbe assumere una valenza ancora più oscura, e terribile.

30 Gennaio 2012

Ciò che splende

I’d try to tell you that the things we had were right


Quando veniamo al mondo le nostre anime sono come dei vasi pronti ad accogliere in sé i semi più disparati che le opportunità della vita vorranno elargire.
Alcuni di questi vasi saranno più propensi a far crescere i migliori fiori, altri troveranno difficoltà nel far fiorire i loro semi, ed altri ancora avranno bisogno di essere annaffiati a lungo, prima di dare vita alla loro pianta.
In ogni caso, la qualità della terra ospitata e i semi che si avrà la sorte di accogliere determineranno quello che il vaso diverrà nel tempo.
E come le piante ospitate, così le anime possono crescere ed espandersi nel tempo, allargarsi fino a trascendere il corpo materiale, oppure possono avvizzirsi nel silenzio fino ad arrivare a sopravvivere a stento.
Perchè per quanto il terreno sia buono, nulla cresce se non riceve la luce del sole, nulla lo può fare senza l’acqua di cui necessita.

Pare quindi a volte che molte cose attorno a noi si adoperino affinchè le piante che portiamo dentro rimangano all’ombra, si ha a volte l’impressione che vi siano forze che della nostra stessa anima si nutrono.
I segnali che ci circondano ci parlano di paure, di insicurezze, di precarietà, e compito dei grandi mezzi di comunicazione pare sia proprio quello di amplificare questi messaggi di sventura.
Come il ruggito a bassa frequenza degli animali feroci che tentano di immobilizzare la loro preda, così coloro che determinano gli etat d’esprit del nostro tempo paiono tentare in tutti i modi di nasconderci la luce, affinchè il timore e la rassegnazione divengano la guida dei nostri giorni.
E quando le anime si rinseccano si ritirano in se stesse, e così facendo non sono più in grado di comprendere ed unirsi a quelle che le circondano.
Quando questa è la realtà, non rimane altro da fare che cercare a tutti costi i luoghi in cui la luce ancora compare, ancora risplende.
Il calore umano, la consapevolezza che vi è qualcosa che accomuna gli uomini, e che quel qualcosa sarà l’unica fonte di salvezza.



Il videoclip della canzone Another Chance, di Roger Sanchez, si sviluppa attorno ad una idea semplice e straordinaria nello stesso tempo.
E’ la storia di una ragazza che si porta appresso un cuore troppo grande, il ché crea imbarazzo e diffidenza in coloro che la circondano.
Disillusa dalla freddezza e dall’indifferenza degli altri, la giovane ragazza vede il suo cuore divenire sempre più piccolo, finché un giovane non si interessa a lei.
Il contatto umano farà sì che il cuore divenga di nuovo grande, e la giovane ritroverà il sorriso e la forza di affrontare un nuovo giorno.

Siamo ormai abituati ad analizzare videoclip musicali che propagano messaggi sostanzialmente oscuri, facenti uso di un simbolismo occulto che trasmette sensazioni negative anche in coloro che del simbolismo stesso si disinteressano.
In questo video, che si tratti di una operazione cosciente o meno, viene raccontata in maniera allegorica una delle più grandi verità riguardanti il genere umano, ovvero la capacità dell’anima di crescere o di atrofizzarsi in base agli stimoli che riceve, in base alle sensazioni di cui si nutre.
Se viviamo in tempi complicati, se tempi ancora più duri ci attendono, e se attorno a noi si espandono le ombre, quello che resta da fare è il cercare, ad ogni costo, ciò che ancora splende, e trarne nutrimento.

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10 Gennaio 2012

Quale amore

Dunque al principio fu il Caos, e poi la Terra dal grande seno, sede incrollabile di tutti gli immortali che abitano la sommità del nevoso Olimpo, e il Tartaro tenebroso nelle profondità della grande Terra, e poi Amore, il più bello degli immortali, che irrora del suo languore sia gli dei che gli uomini, ammansisce i cuori e trionfa dei più prudenti propositi.
Esiodo, Teogonia

Secondo la Teogonia di Esiodo, una delle più antiche cosmogonie europee giunte fino a noi, al principio dei tempi vi era il Caos, l’infinito che tutto comprende.
Il Caos racchiude tutte le possibilità, ed al suo interno contiene tutto ciò che può esistere.
Dal Caos si generano Gea, il Tartaro ed Eros.
Gea, raffigurata come la Madre Terra, è la ile,  la materia prima che assuma una forma, pronta per dare un aspetto alle idee non ancora manifestatesi.
A Gea si associa il Tartaro, luogo profondissimo ed oscuro, allegoria di quella parte della creazione non percepibile con i sensi.
Eros, infine, reso nella lingua italiana con il termine “amore”, rappresenta quella forza dell’universo che unisce e dà vita ad ogni cosa, il fattore necessario affinché la creazione stessa possa procedere (e’ bene precisare che l’Eros della Teogonia non è l’Eros figlio di Afrodite, il dio bambino alato che scocca le freccie dal suo piccolo arco: si tratta di due “divinità” differenti).
Si viene così a formare una Trinità che si ritrova spesso nelle fondamenta delle religioni tradizionali: vi è una presenza infinita che tutto comprende (Caos) da cui si genera la realtà in tutte le sue forme (Gea e Tartaro), ed il tutto è collegato da una forza di unione e attrazione (Eros).
La divinità, la divinità che si specchia e crea l’altro da sé, e la forza che unisce gli elementi (l’essenza del ternario).

Questa forza di unione è propriamente l’Amore, o per meglio dire l’amore nella sua forma più elevata e perfetta.
Il termine amore, infatti, racchiude in sé una miriade di significati, e sono infinite le forme che può assumere.
La lingua greca, per iniziare, distingue subito tra agape ed eros, termini che in italiano vengono resi indistintamente col generico “amore”.
L’agape è l’amore incondizionato, sintetizzato nella sua forma più pura nell’amore che la madre prova nei confronti dei propri figli.
Si tratta di un di amore che fluisce senza chiedere nulla in cambio, indifferente alle caratteristiche, ai difetti ed alle debolezze della persona amata.
Un essere umano può provare questo tipo di amore, in diversi gradi, nei confronti di diversi suoi simili, instaurando un legame di em-patia, una connessione in cui la felicità dell’uno diviene immediatamente anche quella dell’altro.
L’eros – da non confondere con il concetto di erotismo, per come attualmente si intende – è al contrario l’amore unidirezionale, che nella sua forma totalizzante si può provare nei confronti di una sola persona.
A differenza dell’agape, l’eros richiede sempre di essere corrisposto, e viene anche a mancare in esso una componente essenziale della trasmissione empatica.
Chi sperimenta questa forma di amore – l’innamorato, propriamente – desidera che la persona verso la quale il suo sentimento è indirizzato provi le stesse sensazioni: di conseguenza nell’eros, a differenza che nell’agape, la felicità dell’amato non si trasforma immediatamente nella propria felicità, se in questa felicità chi ama non trova posto.
La madre che vede il figlio felice è a sua volta felice (agape), mentre l’innamorato che osserva la persona amata felice con un’altra persona si strugge.
Ed invero, è una strana forma di amore quella che provoca dolore nel vedere la persona amata felice, se non si è parte di questa felicità in maniera diretta.

L’eros è quindi quel sentimento che si celebra quando generalmente si parla di “amore”, è la forza di attrazione di cui trattano i poeti di ogni tempo e le canzoni popolari.
Si tratta solo di una delle forme che l’amore più assumere, quella che più delle altre si pone al limite tra santità e dannazione, ma è nel contempo anche la forza senza la quale la creazione stessa non potrebbe esistere.
E’ l’eros infatti che spinge all’unione tra due persone, e non a caso Esiodo nella sua cosmogonia chiama la presenza che permette la creazione Eros, non agape.
L’eros è una forza creatrice, mentre l’agape accudisce e conserva.
Queste sono le prime tre forme con cui l’amore si presenta: la linfa vitale del creato che tutto unisce e tutto attraversa, la forza che spinge alla creazione e l’amore che accudisce e conserva.
La quarta forma che l’amore assume è anche quella che in questa terra è predominante: l’amore per se stessi.
L’amore per se stessi comprende l’orgoglio, la dignità, la vanità, la superbia, il rispetto per la propria esistenza, e queste qualità possono manifestarsi più o meno marcatamente.
L’esistenza degli uomini non sarebbe possibile senza questa forza, e si tratta di un sentimento che può facilmente prendere il sopravvento, eclissando tutte le altre forme di amore.

Da queste prime quattro forme di amore generano poi tutte le altre, e se davvero l’amore può salvare, quale di essi lo farà?
Probabilmente tutte queste manifestazioni sono necessarie, e se per le forme più elevate non esiste limite al quale fermarsi, l’amore nelle sue forme più terrene va invece maneggiato con grande cura, ove possibile.


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Nella Ballata dell’amore cieco Fabrizio De Andrè riprese e riadattò una vecchia poesia di Jean Richepin dal titolo “Cuore di mamma”.
La storia racconta di un giovane che si innamora follemente di una donna senza scrupoli, e lei, come pegno d’amore, pretende che l’uomo le porti il cuore della madre da dare in pasto al suo cane.
L’uomo, accecato dall’amore, acconsente, e dopo aver strappato il cuore dal petto della madre corre a perdifiato dall’amata.
Nella poesia di Richepin, mentre corre il giovane scivola e fa cadere il cuore della madre; la poesia si conclude con il cuore che inizia a parlare, e preoccupato chiede al figlio se si sia fatto male.

C’era una volta un povero idiota che amava una ragazza, molto, molto, molto tempo fà;
ma lei lo respinse e gli disse: “portami il cuore di tua madre e dallo al mio cane”.

Lui andò ad ammazzare la madre, molto, molto, molto tempo fà;
e le strappo il cuore, che era rosso come la fiamma.
Mentre lo portava inciampò e cadde, molto, molto, molto tempo fà, e il cuore rotolò nella sabbia.

Lui vide il cuore rotolare, molto, molto, molto tempo fà;
si udì un grido nell’aria silenziosa, il cuore cominciò a parlare, molto, molto, molto tempo fà:
“Ti sei fatto male, figlio mio?”.

Nella poesia sono descritte le tre forme principali che l’amore assume in questa terra, nei modi più estremi in cui si possono presentare.
Vi è l‘eros, l’amore del folle innamorato, che arriva al punto di strappare il cuore alla propria madre per accontentare la propria amata.
Vi è l’amor proprio, che si incarna nella giovane e crudele donna che gode nel vedere un uomo compiere dei gesti estremi per ottenere il suo amore.
E vi è infine l’amore incondizionato della madre, che continua ad amare e a preoccuparsi del figlio anche dopo che questi è arrivato al punto di ucciderla.

 

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29 Dicembre 2011

Road full of promise

There’s a darkness upon you that’s flooded in light

 


Una grande distesa, senza recinti.
Una distesa e la sua storia.
Questa è la semplice idea del videoclip realizzato per Head Full Of Doubt/Road Full Of Promise, struggente canzone pubblicata nel 2009 dal gruppo degli Avett Brothers.
Una animazione che racconta la storia di quel prato, una sola inquadratura in cui non accade nulla di eccezionale, eppure accade tutto quello che si può raccontare.
Perchè in poco più di quattro minuti c’è la descrizione dei tempi che stiamo vivendo, di una intera civiltà, della natura e del progresso, e dell’ineluttabile cerchio, col suo inizio e la sua fine che coincidono, che sintetizza ogni realtà di questo mondo.


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