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¿te quedarás, mi pesadilla
rondándome al oscurecer?


-o- Too late to die young -o-
10 Giugno 2010

I prodromi della diffusione del simbolismo occulto

Un filosofo si recò un giorno da un Maestro zen e gli disse:
“Sono venuto ad informarmi sullo Zen, su quali siano i suoi principi e i suoi scopi”.
“Posso offrirti una tazza di tè?” gli domandò il maestro. E incominciò a versare il tè da una teiera. Quando la tazza fu colma, il maestro continuò a versare il liquido, che traboccò.
“Ma che cosa fai?” sbottò il filosofo, “non vedi che la tazza è piena”?
“Come questa tazza,” disse il maestro, “anche la tua mente è troppo piena di opinioni e di congetture perché le si possa versare dentro qualcos’altro… come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?”

Ornamento e delitto

Correva l’anno 1908 e l’architetto Adolf Loos dava alle stampe un libro destinato a diventare un classico del movimento moderno, mettendo per iscritto, per la prima volta, uno dei fondamenti della cultura del novecento.

Io ho scoperto e donato al mondo la seguente nozione: l’evoluzione della civiltà é sinonimo dell’eliminazione dell’ornamento dall’oggetto d’uso.

Il libro di Loos si intitolava Ornamento e delitto, e già dal titolo delineava con chiarezza il pensiero di fondo che lo animava.
Loos, quindi, rileggendo la storia dell’arte e dell’architettura in occidente individuava nell’ornamento una delle caratteristiche estetiche che necessariamente avrebbero dovuto far parte del passato, un qualcosa che non sarebbe più dovuto entrare nel bagaglio culturale dell’uomo moderno, l’uomo che si sarebbe mosso nel XX secolo.

Nella visione di Loos l’ornamento negli oggetti di uso rappresentava un fattore ridondante, un di più che finiva per pregiudicare la funzionalità dell’oggetto stesso; tale funzionalità diveniva quindi l’unico punto di riferimento nella progettazione e nella costruzione di un manufatto (o di un edificio); una sedia doveva servire per sedersi, ed era inutile “arricchirla” con incisioni o ghirigori; occorreva piuttosto studiarla in modo che si adeguasse nel migliore dei modi all’anatomia dell’individuo.
Lo stesso discorso andava fatto per ogni oggetto d’uso: era necessario concentrare tutte le energie sulla “praticità”, ed eliminare tutto il superfluo.

Questo fu, in sintesi, il principio del pensiero del movimento moderno che si diffuse e divenne predominante in occidente nel campo dell’architettura e del design all’incirca agli inizi del XX secolo
L’eco di tale movimento è giunto attraverso diverse fasi ed alcune evoluzioni fino ai giorni nostri: se le sedie dei nostri uffici puntano maggiormente sul confort piuttosto che sull’estetica, se i nostri tavoli sono lisci e squadrati, se le linee semplici predominano in quasi tutti i nostri oggetti quotidiani, molto di questo lo dobbiamo alla diffusione ed al successo del movimento moderno.
D’altra parte, basta fare un semplice paragone con una scrivania del XVII secolo con una contemporanea per rendersi conto del cambiamento del gusto intercorso: così come noi potremmo giudicare “pesante” e “ridondante” un mobile dell’ancien regime, allo stesso modo un uomo colto di quell’epoca troverebbe le creazioni del nostri migliori designer incredibilmente povere e spoglie, pressoché “nude”.

Sicuramente non fu certo Adolf Loos colui che impose tale passaggio, trattandosi di un processo culturale e di costume già avviato, ma nondimeno a lui va il merito di aver messo per iscritto e descritto, con lucidità e precisione, il fondamento del sentimento che si andava diffondendo.

Come spesso accade nei processi culturali tale rivoluzione estetica ebbe bisogno di parecchi decenni per affermarsi anche ad un livello popolare; ancora negli anni 70 (e in parte ancora oggi) venivano considerati “moderni” oggetti pensati e sviluppati negli anni 20 e 30, conosciuti e diffusi all’epoca all’interno di una ristretta cerchia di intellettuali.
La celebre scuola del Bauhaus a cavallo tra le due guerre fu il massimo punto di espressione del movimento funzionalista, e la sua attività influenzò definitivamente la concezione estetica di tutto il XX secolo: nel campo del design, i progetti e le sperimentazioni di tale scuola divennero nei decenni successivi i modelli da seguire per la definizione degli oggetti quotidiani delle popolazioni occidentali, e non solo, e ancora oggi vengono studiati nelle facoltà di architettura e di disegno industriale.
Tale movimento di “purificazione”, di liberazione dal superfluo, fu quindi un processo percepito, teorizzato ed infine applicato da una elite di studiosi ed intellettuali nel campo delle scienze applicate, ed in seguito diffuso a livello popolare nel corso di diversi decenni.

L’oblio del Simbolismo

La diffusione di questa nuova sensibilità estetica nel campo del design e dell’architettura a sua volta era parte di un processo ancora più grande, un cambiamento che traeva origine dalle grandi rivoluzioni sociali e scientifiche del XIX secolo e che avrebbe portato ad eliminare tutto ciò che risultava “superfluo” e “non funzionale” nella stessa esistenza dell’uomo.
Fino ad allora l’uomo aveva infatti convissuto con un immaginario mitico-religioso che lo portava a credere nell’esistenza di entità e realtà non direttamente percepibili con i cinque sensi.
Le nuove scoperte della scienza e della fisica, così come la diffusione del materialismo e del razionalismo e la crisi delle religioni secolari, offrivano ora un nuovo paradigma, l’immagine di un nuovo mondo in cui nulla esiste oltre ciò che appare, poiché solo ciò che è osservabile e misurabile esiste realmente.

Fu solo in un contesto simile che le idee del modernismo nell’arte e nel design poterono diffondersi adeguatamente: improvvisamente, tutta quella lunghissima tradizione di segni e simboli con i quali gli uomini avevano integrato le loro creazioni divennero delle semplici “decorazioni”, ornamenti che agli occhi dei moderni non avevano altra funzione se non minare la funzionalità dei loro “strumenti”.

Questo fu storicamente il momento in cui in occidente il significato e la funzione del simbolismo cadde nell’oblio, il momento in cui una forma di linguaggio millenaria veniva dimenticata dalla maggioranza della popolazione.
Nelle nostre scuole, ad esempio, si insegna come il ricco simbolismo delle chiese medioevali fosse un modo per trasmettere ad una popolazione analfabeta importanti nozioni di carattere sociale e religioso, e non ci si sofferma mai abbastanza sul fatto che persone senza la minima istruzione potessero perfettamente comprendere immediatamente un linguaggio che noi possiamo cogliere in minima parte solo a seguito di lunghe analisi e approfonditi studi.

Il simbolismo, quindi, in tutte le sue forme, divenne pressoché incomprensibile ai più, e quello che rappresentava un vero e proprio codice di conoscenze fisiche e metafisiche venne considerato una sorta di decorazione, creazioni che tuttalpiù potevano possedere un valore artistico.
Lo stesso Loos sosteneva che l’uso di simboli, di ornamenti, è una chiara espressione di culture non ancora propriamente civilizzate, culture “barbare”, antiche usanze che la modernità avrebbe definitivamente accantonato, e questo suo pensiero era pressoché condiviso da tutti gli esponenti del movimento moderno, i fautori dell’etat d’esprit che avrebbe caratterizzato il XX secolo.

L’Esoterismo dei materialisti

Paradossalmente, ma solo in apparenza, questo processo di “purificazione” si sviluppava in parallelo con la diffusione di numerosi movimenti “esoterici”, ordini iniziatici in cui lo studio del simbolismo ricopriva un ruolo fondamentale.
Gli ultimi anni del XIX secolo e i primi del XX furono infatti gli anni della massima espansione dello spiritismo, di movimenti quali la Teosofia e la Golden Down, il Martinismo e il neo-gnosticismo, movimenti che rientrano in quel grande revival del misticismo che René Guénon ben sintetizzò con il termine “Neospiritualismo”.
A tali movimenti si deve ovviamente aggiungere la massoneria moderna, ed è bene ricordare che a tali ordini iniziatici aderirono i massimi esponenti della cultura e della politica dell’occidente.

La situazione culturale dell’epoca quindi presentava una immagine oltremodo interessante: mentre da una parte le masse venivano introdotte al materialismo ed al “razionalismo”, per mezzo dell’arte, dell’architettura e sopratutto dell’istruzione, dall’altra parte la medesima elite che diffondeva questo nuovo e rivoluzionario sentire si dedicava allo studio di quello stesso simbolismo che ufficialmente veniva denigrato e retrocesso a semplice vezzo artistico di epoche culturalmente “barbare”.
In verità, oggi sappiamo che la ricerca esoterica e le aspirazioni iniziatiche non furono mai abbandonate dalle elite culturali e politiche.
Quello che invece era mutato era il punto di riferimento attorno a cui si muovevano tali ricerche: lo sguardo dall’alto si era progressivamente spostato in basso.

Il simbolismo tradizionale era indissolubilmente legato ad una visione del mondo spirituale, tutto l’insieme di questo linguaggio universale mirava a descrivere il rapporto degli esseri umani con le realtà superiori.
Al contrario, nel neospiritualismo moderno lo studio del simbolismo ha come fine il raggiungimento di presunte “possibilità” che la codifica di questi linguaggi può aprire al singolo o ad un gruppo di iniziati.
Possibilità “terrene”, materiali, laddove si tenta di sfruttare presunte forze non-fisiche per ottenere benefici contingenti.
Per tale motivo, tra l’altro, il termine esoterismo risulta improprio se associato alle correnti neo-spiritualiste, dal momento che l’esoterismo in sé rappresenta una via di conoscenza che porta ad una maggiore comprensione delle realtà sensibili e non sensibili.
Più opportuno, di conseguenza, appare l’uso del termine “occultismo” per descrivere tali movimenti, laddove per occultismo si intende il tentativo di manipolare forze ed entità non fisiche per il raggiungimento di obbiettivi materiali.
Tuttavia, questo oblio del simbolismo verificatosi nel XX secolo a livello popolare rappresentò solo un passaggio di un processo ancora più ampio, un processo che a partire dagli ultimi decenni del 900 entrò in una fase molto più avanzata.

Svuota la tazza, riempi la tazza

Lo scopo ultimo delle elite di potere non è mai stato quello della diffusione del materialismo e del positivismo estremo: queste ideologie già oggi appaiono alquanto superate.
La propagazione del materialismo fu invece un passaggio essenziale per rendere le masse pronte a recepire la diffusione della nuova religione che maturava nei circoli iniziatici e nelle logge frequentate dall’elite più consapevole dei cambiamenti in gioco.
In tali circoli non si è mai smarrita la fede nella “potenza” dei simboli, una fede che poco aveva a che fare con lo studio del simbolismo tradizionale: per tali movimenti l’uso del simbolismo ha infatti  uno scopo prettamente pratico.
All’interno di una serie di credenze in fin dei conti “meccaniciste”, i propagatori del neo-spiritualismo moderno sono convinti di poter far uso del linguaggio dei simboli per comunicare la loro visione del mondo e condizionare le popolazioni bypassando la loro sfera razionale, raggiungendo così i loro scopi in maniera più efficace.

E per poter diffondere questo nuovo tipo di linguaggio era necessario, come si è visto, che la antica concezione tradizionale del simbolismo venisse prima dimenticata.
Era necessario fare tabula rasa delle antiche conoscenze, per poter così meglio diffondere un nuovo paradigma.
In questo modo, possiamo oggi osservare intorno a noi una vera e propria “invasione” di un simbolismo trasfigurato senza che la maggioranza delle persone possa coglierne il significato.
I principali mezzi di diffusione di questo revival simbolista sono ovviamente il cinema e sopratutto la musica popolare, in particolar modo quella rivolta ai più giovani, dal momento che è opportuno che l’indottrinamento parta il prima possibile.
Occhi onniveggenti che spuntano ovunque, triangoli e pentacoli, tematiche luciferiane e riferimenti a presenze psichiche sono diventati elementi della cultura popolare, mentre la loro reale valenza non viene colta e si interpretano quali semplici forme di “espressione artistica”, come d’altra parte teorizzavano i precursori del movimento moderno cento anni fa.

si veda anche: La scienza della persuasione

27 Aprile 2010

Il telescopio Lucifero


–  Padre Riccardo, abbiamo appena comunicato con i nostri tecnici in Arizona. Il terzo telescopio è pronto, e potrà entrare in funzione già nei prossimi giorni.

– Eccellente, padre Damiano. Ora non resta che decidere il nome da assegnarli.

–  I nostri tecnici avevano pensato di chiamarlo Ezechiele, padre. Come il profeta guardò in cielo e vide il carro di fuoco dei cherubini, così noi scruteremo le stelle per rendere testimonianza dell’infinita gloria del Signore.

–  Sì, sì, le visioni di Ezechiele e il resto… No, è troppo scontato. E poi sa di antico, abbiamo bisogno di svecchiare un po’ la nostra immagine. Ecco, ho trovato! Lo chiameremo Lucifero!

– Lucifero, padre? Con tutto il rispetto, non vi pare un po’ azzardato?…

– Ma no, padre Damiano.. Pensate solo al tam tam che si scatenerà nella rete quando si verrà a sapere che il Vaticano ha battezzato il suo nuovo telescopio Lucifero… Provate a immaginare cosa scriveranno i siti di controinformazione…

– Padre Riccardo, siete sempre il solito burlone..

Ecco, io spero che sia andata così.
Perlomeno, non riesco ad immaginare un altro motivo plausibile per cui al terzo telescopio dell'osservatorio dell'Arizona, gestito, a quanto pare, anche con la collaborazione dell'ordine dei Gesuiti, sia stato dato il nome di Lucifero.

Cose curiose.

18 Febbraio 2010

Le gated communities, i borghi fortificati del XXI secolo


Quando anni fa sentii parlare per la prima volta delle gated communities ebbi l’impressione di stare ascoltando il racconto di un romanzo distopico ambientato in un prossimo futuro.
In realtà, le gated communities non hanno nulla di fantascientifico, e rispondono ad una precisa esigenza sentita da sempre più cittadini.
Più che una anticipazione del futuro, inoltre, queste “comunità” rappresentano un curioso ritorno al passato.

Si tratta, essenzialmente, di zone residenziali private composte da diverse unità abitative, da poche decine a qualche centinaio, riservate principalmente a cittadini benestanti, facenti parte del ceto medio – alto della popolazione.
Queste zone residenziali speciali possono formare dei paesi isolati, oppure occupare un quartiere all’interno di una città più grande, e sono solitamente cintate da muri e cancelli – da cui il nome – ed ogni abitante deve identificarsi all’ingresso per potervi accedere.
La caratteristica principale di tali agglomerati urbani infatti è proprio questa: il transito al loro interno è interdetto agli estranei, che potranno al massimo accedervi dietro necessaria autorizzazione.
Se, ad esempio, un abitante della communityaspetta la visita di qualche conoscente che non abita nel quartiere, dovrà annunciarlo alle guardie giurate che controllano gli ingressi, comunicando l’orario dell’arrivo dell’amico, il suo nome, i dati di un documento di identificazione e il motivo della visita stessa.
La prima ragione dell’esistenza di tali comunità isolate è intuibile: il desiderio di sicurezza.
Dentro il quartiere infatti possono circolare solo gli abitanti, che col tempo si conoscono personalmente, e vi è inoltre un servizio di sicurezza offerto da guardie private pagato dai proprietari delle case.
Gli abitanti, inoltre, concorrono collettivamente per le spese urbanistiche, per la cura del decoro urbano e per  i vari servizi comuni di cui hanno bisogno, facendo in questo modo delle loro zone residenziali delle piccole entità giuridiche in parte indipendenti.
Le gated comunities più grandi vengono così dotate di centri ricreativi, scuole materne, piscine comuni, bar, ristoranti, negozi, come fossero delle comunità autosufficienti.Tale fenomeno urbanistico ebbe la sua origine negli Stati Uniti – dove si calcola che attualmente circa 10 milioni di persone vivano in una di queste comunità – e ben presto si è diffuso in altre nazioni, in particolar modo in stati in cui esiste una certa disparità tra le condizioni economiche dei più ricchi rispetto a quelle dei più poveri, come la Cina, il Brasile, L’Argentina, ed altri paesi del Sudamerica.

In Italia, esiste un progetto del 2007 che prevede la costruzione della prima gated community sul nostro suolo nazionale, all’interno del comune di Basiglio, a trenta minuti di Milano.


Nella presentazione dell’operazione comunicata dai media si descrive chiaramente l’idea dell’abitare a cui il progetto si ispira:

A Basiglio, a due passi da Milano 3, sta per nascere quella che potrebbe essere la prima gated community italiana, una città nella città in un ambiente superprotetto e immerso nel verde, senza auto e con tutti i servizi di un hotel cinque stelle che sarannno fornite da società esterne al quartiere.
L’idea funziona da anni negli Stati Uniti, soprattutto fra le famiglie del ceto medio-alto, per proteggersi dal crimine.
L’immobiliarista Danilo Doronzo, che guida la Milano Holding Goup, ha deciso di importare in Italia il modello che, secondo gli ideatori, rappresenta l’evoluzione d’iniziative come Milano 2, lanciate negli anni ‘70 da Silvio Berlusconi.
La sicurezza, però, è solo uno degli aspetti che lo interessano.
La differenza rispetto ad altri progetti simili sarà data dalla qualità dei servizi. «Sarà il regno del silenzio – spiega Doronzo – uno spazio dove i bambini potranno circolare liberamente senza che nessuno possa entrare in assenza di autorizzazione e dove una società di gestione esaudirà tutte le richieste dei proprietari, dai servizi di baby sitting alla consegna della spesa, fino all’innaffiamento dei fiori 24 ore su 24».

I lavori di Cascina Vione partiranno a febbraio e dureranno tre anni. Si tratta di un progetto da 80 milioni di euro finanziato per 53 milioni da Bpm su un’area di 100mila metri quadri, di cui solo 25mila saranno costruiti.
«Rispetteremo le metrature esitenti», precisa Doronzo.
L’obiettivo infatti è creare un ambiente esclusivo per circa 150 famiglie che avranno modo di veder rifiorire un complesso che risale al Milleduecento.
All’interno di questo spazio si circolerà rigorosamente a piedi: «Anche le biciclette – precisa Doronzo – resteranno fuori mentre per le auto ci saranno i parcheggi sotterranei».

Da un certo punto di vista, il fatto che un gruppo di cittadini decida di abitare in una zona residenziale comune isolata dall’esterno può considerarsi del tutto legittima, secondo gli standard attuali della proprietà privata.
In fondo, l’operazione in sé non ha nulla di diverso rispetto al cingere con cancellate e muri il lotto della propria abitazione privata.
Si tratta semplicemente di un passaggio di scala, dal momento che all’interno dei muri rientrano diverse proprietà, e non una sola, creando un piccolo agglomerato urbano.

Nondimeno, l’idea che all’interno di una città esistano zone più o meno ampie dotate di strade a cui un normale cittadino non possa accedere stride con la nostra stessa abitudine di “utilizzatori di città”.
Risulta infatti normale e scontato incontrare terreni recintati, parchi privati ed in generale edifici non pubblici a cui non è possibile accedere, ma diviene più difficile concepire delle strade e dei quartieri interamente privati, con tanto di cancelli di ingresso e guardie armate che vigilano e controllano affinché nessuno non autorizzato possa varcarne la soglia (come si diceva all’inizio dell’articolo, tale situazione ricorda molto i borghi fortificati dei secoli passati, con le sentinelle del signore attente a non far entrare potenziali nemici entro le mura; alle gated communities manca solamente il ponte levatoio).

Inoltre, specialmente nei paesi con maggior disparità sociali, non può non stridere il contrasto tra l’ordine e l’agiatezza delle zone residenziali private e la povertà e la miseria che iniziano subito all’esterno delle cancellate.

Da un punto di vista urbanistico – sociale, le gated communities denunciano in qualche modo anche il fallimento della metropoli contemporanea, con la sua pretesa di multiculturalità e commistione tra i diversi strati sociali della popolazione.
Queste entità residenziali, d’altra parte, non fanno altro che ricreare i vecchi villaggi che caratterizzavano fino a pochi secoli fa il mondo pre-moderno, dove un numero ristretto di famiglie che condividevano le stesse condizioni economiche e sociali vivevano all’interno di un piccolo nucleo urbano; in tali comunità era assente la figura dell’estraneo, dal momento che tutti si conoscevano a vicenda, e da questo derivava un certo senso di sicurezza.
Gli esseri umani, infatti, sono esseri sociali, ma una loro innata predisposizione, risalente all’alba dei tempi, li porta a dividere le persone che li circondano in due categorie, conoscenti ed estranei, ed una sorta di istinto primordiale porta naturalmente ogni uomo ad essere diffidente nei confronti dei secondi.
Nelle piccole comunità, l’essere circondati da conoscenti, da persone di cui è noto il nome, la storia e il carattere, dà all’individuo un naturale senso di sicurezza, mentre nei grandi conglomerati, dove tutti sono estranei, le reazioni sono assai diverse: si va da una lieve diffidenza ad un vero e proprio sentimento di costante insicurezza.

Le gated communities ricostruiscono, forse in maniera inconsapevole, quell’antico modo di abitare, un mondo chiuso fatto di volti noti e persone simili e di conseguenza rassicuranti.
Ma se da questo punto di vista si crea una unità tra i membri di queste piccole comunità, dall’altra si accentuano ancora di più le differenze tra coloro che hanno una certa disponibilità economica e la grande massa che ne rimane fuori, facendo in modo che le diseguaglianze della società si accentuino ancora di più.

15 Febbraio 2010

Afghanistan, le forze della civiltà all'opera


Due razzi sparati in Afghanistan da militari della Coalizione internazionale nella provincia meridionale di Helmand
hanno ucciso per errore 12 civili. Lo rende noto a Kabul la Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (Isaf).

I due razzi, si precisa in un comunicato, erano diretti contro postazioni di talebani che sparavano sulle forze militari congiunte afghane ed internazionali, ma “hanno raggiunto il suolo a 300 metri dall’obiettivo prefissato”. Per questo, si dice infine, “sono stati uccisi 12 civili nel distretto di Nad Ali”. Il comandante dell’Isaf in persona, generale Stanley McChrystal, ha presentato le condoglianze al presidente della repubblica Hamid Karzai.

_____________________

I vertici militari della Nato in Afghanistan sono ‘molto soddisfatti’ del primo giorno di operazioni per sgominare i talebani dalla roccaforte di Marjah nella provincia meridionale di Helmand. Finora tra le truppe Nato si contano 6 vittime, cinque Usa e un britannico, mentre sono stati uccisi 20 talebani e ne sono stati catturati 11. Nell’Operazione Moshtarak (‘Insieme’ in lingua Dari) partecipano circa 15.000 militari tra forze afghane e della Nato .

Dodici civili uccisi per errore, ma i vertici militari NATO sono comunque molto soddisfatti del primo giorno della grande offensiva militare atta a sgominare la roccaforte dei talebani
Non si fa nemmeno finta di dolersi per la morte di dodici innocenti. Rapide condoglianze e via.
In fondo non erano esseri umani, erano solo afghani.
Potevano anche trovarsi un altro posto in cui stare.
Già vivere in afghanistan oggi significa andarsela un po’ a cercare, obbiettivamente.

(Si provi ad immaginare, per assurdo, un gruppo di ipotetici miliziani talebani che avesse assediato una base NATO in Europa ed avesse ucciso negli scontri 12 civili, poniamo italiani.
Si provino ad immaginare le reazioni del “mondo civile” dinanzi a tanta “barbarie”)


7 Febbraio 2010

Avatar, New Age e Neospiritualismo


(Avvertenza: nell’articolo che segue vengono rivelati in parte alcuni aspetti della trama del film)
(Avvertenza seconda: articolo aggiornato dopo la pubblicazione; eliminato capitolo riguardante lo scrittore Colin Wilson)

Avatar, l’ultima fatica del regista pluripremiato James Cameron, ha riscosso un atteso e prevedibile successo planetario, un successo che può ben rientrare nella categoria delle profezie che si auto avverano, a seguito di una massiccia campagna di marketing durata diversi mesi ed una spasmodica attesa alimentata da tutti i media.
La trama del film in sé non presenta tratti originali, e ripercorre un ferreo copione più volte sperimentato nelle produzioni americane: come in Balla coi lupi o in Pocahontas la storia ripercorre le vicende dell’eroe appartenente ad un mondo civilizzato ed aggressivo che dopo essere venuto a contatto con la cultura locale di un territorio di conquista ne rimane affascinato e si unisce ai “buoni selvaggi”, rinnegando la sua precedente identità.E’ chiaro che la produzione non ha di certo puntato sull’originalità della trama nell’impostazione della storia, dal momento che fin dal primo momento di visione si intuisce chiaramente tutta l’evoluzione degli eventi successivi, compresa la prevedibile storia d’amore tra il protagonista e la bella guerriera “locale”, l’inevitabile scontro tra le due culture e la vittoria finale dei “buoni selvaggi”.
La scarsa originalità del copione passa però in secondo piano in un film del genere, dal momento che tutta l’operazione punta sulla valorizzazione degli effetti speciali, i più sofisticati e spettacolari della storia del cinema, e sulla creazione accurata e coinvolgente di un nuovo mondo alieno ed onirico, il pianeta Pandora, vero protagonista della storia.

In Avatar si narra di avvenimenti che si svolgono in un ipotetico futuro, un futuro in cui il genere umano sta esaurendo le risorse della terra dopo averne devastato l’ecosistema, trovandosi così costretto a ricercare materie prime essenziali per la propria sopravvivenza in pianeti lontani.
Giunta a Pandora, la spedizione dei terrestri ha come risultato la devastazione anche di questo pianeta, una vera e propria invasione che non risparmia nemmeno i nativi alieni, una specie umanoide, visti come un impedimento alla riuscita della missione.
Non si fa fatica nell’individuare nel comportamento degli umani in viaggio su Pandora una allegoria dell’opera delle varie colonizzazioni dei popoli occidentali nel corso della storia, laddove nel corso dei secoli non hanno mai esitato a distruggere e sottomettere le popolazioni locali delle terre che conquistavano, con l’unico scopo di sfruttarne le risorse per ragioni di profitto materiale.

Il messaggio trasmesso dal film è dunque un messaggio forte, un vero e proprio atto di accusa nei confronti dell’arroganza delle colonizzazioni occidentali e del disprezzo dimostrato nei confronti delle culture delle popolazioni locali, sottomesse per fare spazio all’espansione dei conquistatori.
Detto di sfuggita, si potrebbe qui cogliere una certa incongruenza nel trovarsi di fronte ad un’opera squisitamente commerciale, figlia di quella industria cinematografica americana che del profitto ha fatto il suo unico obiettivo, che si pone in maniera “critica” di fronte alla “sete di profitto” dell’uomo occidentale e civilizzato.
In fin dei conti, l’idea di produrre un film commerciale e dispendioso come Avatar, organizzando un viral marketing aggressivo con lo scopo di raggiungere il record di incassi nei botteghini di tutto il mondo, fa proprio parte di quella cultura occidentale-capitalista che il film stesso denuncia.
Gli stessi Na’vi, gli abitanti di Pandora la cui cultura è descritta con ammirazione all’interno della storia, di sicuro non saprebbero che farsene del  cinema e di un film come Avatar.In altre parole, se Cameron e la produzione hollywoodiana del film hanno potuto ottenere incassi stratosferici è proprio grazie al fatto che nel pianeta terra la cultura erede degli occidentali-capitalisti denunciati nel film è preponderante.

Ma questo è solo uno dei piccoli paradossi dei tempi moderni, ed una industria altamente capitalista, come quella di Hollywood, che ottiene cospicui guadagni creando un’opera che denuncia la mentalità capitalista rientra perfettamente nei canoni di totale confusione del mondo contemporaneo.


L’aspetto più importante del film, però, è il messaggio religioso che viene veicolato, un vero e proprio catechismo di massa di quel neospiritualismo che da qualche decennio a questa parte si sta diffondendo quale vero e proprio culto dominante nella società occidentale, e non solo.
Lo stesso pianeta Pandora altro non è se non la fedele trasposizione di Gaia secondo la visione dello scienziato inglese James Lovelock, per anni tra i principali punti di riferimento del movimento New Age.
Secondo tale visione, detta teoria di Gaia, il pianeta terra nel suo complesso consiste in un enorme organismo vivente, in cui ogni creatura vegetale animale e minerale compartecipa nell’equilibrio generale, nello stesso modo in cui un organismo vivente è composto da cellule e tessuti.
L’uomo, in questo scenario, rappresenta solo uno degli elementi che compongono il sistema, ed il suo ruolo assume un carattere più negativo che vitale per l’equilibrio generale, una idea fatta propria dal movimento ambientalista moderno.
In Avatar, quindi, Pandora assume tutte le caratteristiche della Gaia descritta da Lovelock: nel pianeta ogni creatura è interconnessa con tutte le altre, ed il tutto compartecipa nel grande spirito di Eywa, la Dea Madre venerata dal popolo dei Na’vi.
Il  culto di una Grande Madre è un altro rimando ai movimenti neospirituali moderni che si rifanno ai culti ctoni del passato, trasfigurandone il senso originario.
A differenza della concezione delle religioni tradizionali, dove la natura viene concepita quale creazione e manifestazione della divinità, questi culti moderni concepiscono la natura come divinità a sé stante, concetto messo in evidenza nel film di Cameron, dove il culto dei nativi è indirizzato direttamente allo spirito di Eywa, una presenza tangibile e concreta di carattere ctonio, terrestre.
Si potrebbe facilmente cadere nell’errore di accomunare la spiritualità descritta nel film con quella di popolazioni che per secoli hanno mantenuto dei culti che riservavano un grande rispetto per la natura e le sue creature, come ad esempio fece la cultura dei nativi americani.
Ma mentre per tali culture il creato meritava venerazione in quanto emanazione di un grande spirito trascendente, identificato principalmente con Manitù, per i Na’vi la Grande Madre consiste nel pianeta stesso.
La differenza è sottile ma sostanziale, e l’incomprensione di tale difformità rappresenta un’altra delle caratteristiche dottrinali dei movimenti neospiritualisti moderni.
Un altro elemento importante all’interno del film è rappresentato dal  grande albero all’interno del quale i Na’vi abitano: tale presenza non può infatti che rimandare al simbolismo dell’Axis Mundi, l’albero sacro che per diverse culture del passato era espressione del collegamento tra la realtà celeste e quella terrena.
Chiamato Yggdrasill dai popoli scandinavi e Irminsul dai Germani, la figura dell’albero sacro rivestì una grandissima importanza nella mitologia delle culture precristiane europee, ed una valenza simile si ritrova nella cultura dei nativi del pianeta Pandora.
Si può quindi osservare come in Avatar la filosofia ecologista-new age, così come determinate tematiche mistiche ed esoteriche, trovino un potente veicolo di divulgazione, per mezzo di una riuscitissima operazione di propaganda.
Lo spettatore non può che abbracciare in pieno la visione dei nativi,  contrapposta a quella brutale occidentale – materialista, e nello stesso momento per mezzo di un messaggio apparentemente filo-ambientalista vengono introdotte al grande pubblico tematiche prettamente religiose di carattere ben più profondo.