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-o- Too late to die young -o-
13 Gennaio 2021

Il vero costo della pandemia

«Io non ho mai avuto tanti accessi al pronto soccorso e tentativi di suicidio e di autolesionismo.

Abbiamo una quantità di richieste di aiuto che sono addirittura superiori alle nostre possibilità di accogliere»: queste le parole di Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria all’ospedale Bambino Gesù di Roma, a Rainews24.
Molta la preoccupazione per la condizione di tanti adolescenti: «Tutto questo è assolutamente associato al periodo di chiusura, gli adolescenti vivono con grande preoccupazione questo periodo e quindi c’è una ripercussione sui loro vissuti particolarmente importante.
Mi comincio a chiedere quando tutta questa emergenza sarà finita quello che dovremo gestire. Sarà un’onda lunga» ha poi concluso.

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Ci sono molte persone che credono che le misure imposte dal governo abbiano come fine il proteggere la popolazione.
“Siamo nel mezzo di una emergenza sanitaria, occorre limitare le libertà per evitare migliaia di morti”.
Se così fosse, i governi sarebbero altrettanto preoccupati della salute psicologica dei più fragili, a partire dagli adolescenti, che stanno vivendo questo periodo con enormi sofferenze, subendo privazioni e limitazioni che incideranno sul loro futuro sviluppo psico fisico, in una età in cui le interazioni sociali sono altrettanto importanti del cibo e dell’aria che si respira.
Così come, se i governi tenessero alla popolazione, sarebbero impegnati ad evitare quelle misure che hanno portato e porteranno centinaia di migliaia di persone alla disperazione, causata dalla perdita del lavoro e della possibilità di sostentamento.
In Giappone, dove si tiene un registro aggiornato della situazione psicologica della popolazione, si è appurato che le morti causate dai suicidi collegati a questo periodo di privazioni e limitazioni superano numericamente la quantità delle vittime del co*id.
In Italia un conto aggiornato delle morti causate dai suicidi non c’è, ma basta una veloce ricerca tra gli articoli di cronaca per accertarsi del fatto che, per quanto riguarda la popolazione d’età inferiore ai 60 anni, i suicidi causati dalle conseguenze delle misure prese dal governo sono infinatemente superiori al numero dei morti per co*id.
Questo è un dato di fatto.
E sono tutte morti di cui il governo è direttamente responsabile.
E occorre anche tenere conto che il peggio non è ancora arrivato.
Dal punto di vista economico stiamo attualmente vivendo in un limbo, siamo in una spiaggia durante uno tsunami, e siamo nella fase in cui le acque si ritirano, prima di sperimentare la grande onda che si porterà via tutto.
Nell’ultimo anno centinaia di migliaia di imprese sono sopravvissute dando fondo ai risparmi degli anni precedenti, usufruendo delle casse integrazione che non potranno essere eterne, ma la perpetuazione delle misure restrittive porterà queste aziende al fallimento prossimo.
Il blocco dei licenziamenti è stato più volte prorogato, e quando inevitabilmente avrà termine altre centinaia di migliaia di famiglie si troveranno improvvisamente senza reddito.
Questo tracollo è inevitabile, certo come l’arrivo a valle di una frana che al momento osserviamo staccarsi dalla cima della montagna.
E sarà tutta colpa delle misure imposte dai governi, che per quanto inetti non possono non comprendere le conseguenze delle loro scelte totalitarie.
Stanno consapevolemente condannando centinaia di migliaia di persone alla miseria, e stanno devastando psicologicamente, consciamente, milioni di persone.
Per questo non vanno creduti nemmeno per un secondo quando asseriscono che tutto quanto si sta facendo è necessario per il bene dei cittadini.

23 Gennaio 2018

La dissonanza cognitiva dell'Occidente e la sua origine arcaica

Una legge per il leone e il bue è oppressione
William Blake

La dissonanza cognitiva […] riguarda un atteggiamento molto usuale tra noi umani che spesso mettiamo in atto inconsapevolmente o non volendocene rendere conto per comodità, convenienza o perché si tratta di situazioni di cui non riusciamo a fare a meno.
Tale teoria è basata sull’assunto che un individuo mira normalmente alla coerenza con se stesso, o per lo meno ci prova e ci riesce in quasi tutte le cose che fa, vi sono però delle situazioni in cui il soggetto stesso cade in contraddizione con quello che asserisce.
Quando i pensieri, le emozioni o il comportamento entrano in conflitto tra loro l’individuo prova disagio e tende a eliminare quelli in contraddizione inventandosi delle scuse, delle teorie, degli assunti che ritiene veritieri ma che in realtà sono il frutto della sua capacità creativa per non ammettere di essersi sbagliato e contraddetto.

Dissonanza cognitiva: rapporto di incongruenza tra atteggiamenti cognitivi dell’individuo (conoscenza, opinione ecc.) ed elementi dell’ambiente esterno; essa è percepita come spiacevole dall’individuo, che è spinto a ridurla.

 

Gran parte di quello che siamo e di quello che pensiamo, di quello in cui crediamo e dei nostri valori, è irrimediabilmente frutto dell’ambiente in cui ci siamo trovati a nascere, della cultura che abbiamo ereditato e degli insegnamenti che abbiamo appreso fin dalla più tenera età.
Molte delle verità che diamo per scontate, incontestabili, sono in realtà concezioni che abbiamo ereditato, e che i nostri avi si trasmettevano di generazione in generazione per migliaia di anni.
Così anche il nostro occidente* usa quali concetti chiave per descrivere la propria civiltà idee quali l’egualitarismo, la cooperazione, la fratellanza, la generosità, il coraggio, la sincerità, l’onore, la compassione, la giustizia.
Che siano mera retorica o raffinata ipocrisia, tali qualità sono nondimeno considerate nobili a priori, su di esse si fondano il diritto contemporaneo e tutte le nostre istituzioni.
Nondimeno, risulta evidente anche ai più ingenui che vi è una totale dicotomia tra i valori fondanti della società occidentale e il modo in cui essa opera, ed ha operato, nei secoli.
La nostra economia si fonda sulla prevaricazione, la furbizia seppur condannata viene dietro le quinte considerata un pregio essenziale per la sopravvivenza quotidiana, e per quanto concerne le istituzioni e i sistemi di governo che hanno guidato i popoli, le guerre e le prevaricazioni sono state la norma nei secoli.
Sarebbe fin troppo semplice spiegare tale dicotomia quale mera espressione della natura ipocrita degli esseri umani.
L’ipocrisia in sé non è necessaria, né è necessario celare in maniera così plateale la propria vera essenza, per un essere umano così come per una società intera.
Si potrebbe anche sostenere, correttamente, che spinte diverse agitano e guidano l’anima di ogni uomo: bene e male, volontà di prevaricazione ed empatia, aggressività e compassione abitano in ognuno di noi.
Questo è indiscutibile, ma è altrettanto vero che ogni epoca, ogni ambiente, ogni società, trasmette degli stati d’animo, indica delle priorità, stabilisce una scala di valori (valori che possono variare nel tempo), e l’essere umano assorbe tali stimoli e ne fa nutrimento per le sue varie componenti.
Alla fine in ogni uomo emerge la parte di sé che maggiormente viene nutrita, alimentata, e per la grande maggioranza degli esseri umani l’aria che si respira contribuisce in maniera decisiva per far prevalere questa o quella componente.
E nella nostra epoca in particolare vi sono due morali nettamente distinte che coesistono, e si diffondono, una in maniera aperta, la seconda in modo subdolo, non ufficiale.
Ed è quest’ultima a dettare effettivamente il corso della storia.

Uno dei motivi quindi per cui tale dicotomia – la discrepanza tra i valori propagandati e quelli che invece vengono attuati – si è verificata va ricercato agli albori della nostra civiltà, qualche migliaio di anni fa, nel momento in cui due culture diametralmente opposte si incontrarono nella vecchia Europa, si scontrarono, ed infine si fusero dando origine alla storia per come la conosciamo, ponendo le basi per la creazione della nostra mentalità, e del nostro modo di vivere nel mondo.

*il termine “occidente” va letto in chiave simbolica, per definire la cultura e la civiltà che si è sviluppata in Europa negli ultimi 7.000 anni ed in seguito si è diffusa nel resto del globo.
Il termine, pur impreciso ed approssimativo, verrà usato per sintetizzare il carattere della cultura di cui l’articolo si occupa.

Gli Indoeuropei arrivano in Europa, la nascita della nostra scala di valori.

 

Espansione dei popoli Indoeuropei - Kurgan

Espansione dei popoli Indoeuropei – Kurgan

 

Ci sono ancora molti aspetti oscuri per quanto riguarda la storia degli Indoeuropei, ma i fatti assodati ci offrono una visione sufficientemente chiara per poter avere una idea di base sul chi fossero e come agissero le popolazioni che sotto tale nome vengono raggruppate.
Di essi sappiamo che parlavano un idioma da cui sono derivate molte delle lingue diffuse oggi nel mondo: lingue di origine indoeuropea sono il latino e di conseguenza le lingue neo romanze (italiano,francese, spagnolo ecc), le lingue germaniche (tedesco, olandese, inglese…), il greco, l’iraniano e alcune lingue indiane.
Era un popolo che usava parole quali paeter, meter, da cui i nostri padre e madre, i greci pater e mitera, gli inglesi father e mother, e contava, sette mila anni fa, in un modo che sarebbe risultato familiare anche a noi: oinos, dwo, trjes, kwettwor, penqwe, sewks, septm, hocto, newn, dectm, e così via.

Le lingue indoeuropee
Si trattava quindi di un popolo capace di trasmettere la propria lingua e di diffonderla ai quattro lati del pianeta nei millenni a seguire, in grado di dare una impronta decisiva alla cultura e alla mentalità delle genti che andava via via assoggettando.
Gli indoeuropei sapevano come imporsi: furono un popolo guerriero, conquistatore; erano abili combattenti, usavano cavalli e armi, e onoravano le divinità del cielo.
Questi sono alcuni punti essenziali per iniziare a comprendere la mentalità e l’ideologia che gli indoeuropei portavano con loro.
Tenevano in massima considerazione il coraggio, la forza fisica, e nel loro schema di valori un uomo aveva il diritto di impossessarsi di quello che poteva prendere con la violenza.
Il diritto di conquista era una regola, la guerra un atto glorioso che definiva un uomo ed un popolo.
E’ di estrema importanza notare come l’ideologia di fondo dei popoli indoeuropei e il loro agire coincidevano perfettamente: non lodavano la pace né predicavano la tutela e il rispetto del debole; la forza fisica, l’abilità guerriera e la prevaricazione del meno potente erano in sé dei valori.

Gli indoeuropei quindi, con il loro spirito di conquista, si spostarono dalle steppe centro asiatiche (la loro originaria ubicazione è ancora oggetto di dibattito) e in diverse ondate arrivarono anche in Europa, a partire probabilmente dal 5.000 avanti Cristo e fino al II millennio prima dell’epoca storica.
Quando arrivarono nella vecchia Europa incontrarono delle popolazioni che vi abitavano da migliaia di anni, popoli che avevano sviluppato a loro volta una cultura avanzata con delle caratteristiche ben precise.
Anche di questi popoli arcaici sappiamo poco, ma gli indizi archeologici ci suggeriscono alcuni aspetti certi: si trattava di popoli sedentari che vivevano prevalentemente di agricoltura, possedevano ottime capacità nel lavorare la terracotta e producevano utensili di ottima fattura, in particolare vasi e contenitori; vivevano in villaggi e città di piccole-medie dimensioni, e i loro centri abitati erano privi di mura difensive.

L'Europa Neolitica, prima dell'arrivo degli Indoeuropei

L’Europa Neolitica, prima dell’arrivo degli Indoeuropei

E’ importante specificare che l’agricoltura praticata da queste popolazioni non era ancora quella che si sarebbe in seguito diffusa in maniera capillare: si trattava di un’agricoltura di “sussistenza”, in cui l’intervento dell’uomo nello sfruttare la terra in modo sistemico era limitato.
La raccolta dei frutti del terreno era complementare alla caccia e all’allevamento, e fatto essenziale non era ancora comparsa la presenza del “surplus”, ovvero il prodotto del suolo eccedente, adatto ad essere immagazzinato o ad essere scambiato con altri beni.
Tale surplus, che fa la sua comparsa proprio nelle culture agricole più sviluppate, è il fattore determinante che segnerà in seguito la divisione della società in classi, dal momento che l’organizzazione e lo sfruttamento delle eccedenze avrebbe permesso ad una elite di esentarsi dal lavoro manuale sfruttando quello dei coltivatori subordinati.
Non dovendo più occuparsi materialmente del proprio sostentamento, questa elite avrebbe potuto così dedicarsi alla gestione della società, creando istituzioni e leggi che ne garantissero i privilegi e mantenessero lo status quo, finché tale divisione tra sfruttati e sfruttatori non si fece “regola” e divenne consuetudine, fino ad essere assorbita ed accettata dalla società quale “stato naturale delle cose”.

I popoli di questa Europa antica non erano nemmeno specializzati nella costruzione di armi, d cui si può dedurre che si trattasse di popoli sostanzialmente pacifici.
Seppellivano i loro morti e le tombe non mostravano differenze sostanziali per quanto riguarda gli oggetti che accompagnavano i vari defunti: da ciò si è dedotto che non esistevano grandi differenze di status sociale tra gli abitanti, e si trattava quindi di società probabilmente egualitarie.
La loro religione era incentrata sul culto delle divinità ctonie, terrene, e ciò è ovviamente coerente con il fatto che la terra stessa fosse la fonte primaria del loro sostentamento.
I culti che si rifacevano alla fertilità della terra e alla morte e rinascita della natura degli esseri viventi avevano una importanza primaria, così come la figura della Grande Dea Madre che sintetizzava la visione del creato che questi popoli avevano sviluppato.

Basandosi su questi fatti, alcuni autori si sono spinti ad ipotizzare nella vecchia Europa pre-indoeuropea una sorta di età dell’oro di stampo matriarcale, dove attorno al culto della Madre Terra si era sviluppata una società pacifica e priva di contrasti, dove la violenza e la prevaricazione, pur inevitabilmente presenti, erano stigmatizzate e bandite.
Per quanto tali considerazioni possano facilmente dare vita ad eccessive idealizzazioni (vari movimenti di stampo femminista ad esempio hanno voluto vedere in quelle arcaiche società una sorta di eden fondato su una struttura matriarcale, spazzato via dalla violenza del patriarcato dei popoli invasori), resta indubbio che le evidenze giunte a noi descrivono comunque una cultura di stampo prevalentemente pacifico ed egualitario, che onorava nei suoi culti la Terra quale dispensatrice della vita stessa dal momento che da essa e dai suoi frutti traeva il proprio sostentamento.

Manufatti della cultura balcanica di Cucuteni, V-IV millennio a.C.Dopo l'arrivo dei conquistatori Indoeuropei, passerranno diversi millenni prima che in Europa si sia nuovamente in grado di creare opere artistiche di tale raffinatezza.

Manufatti della cultura balcanica di Cucuteni, V-IV millennio a.C.
Dopo l’arrivo dei conquistatori indoeuropei passerranno diversi millenni prima che in Europa si sia nuovamente in grado di creare opere artistiche di tale raffinatezza.

Ecco quindi che quando i popoli indoeuropei giunsero nella vecchia Europa e vennero a contatto con queste popolazioni l’esito dello scontro era già scritto: una cultura guerriera e bellicosa ha infatti gioco facile nel soggiogare delle genti che conducono una vita prevalentemente pacifica, prive di armi.
Gli indoeuropei si imposero come nuovi dominatori, e dalla loro fusione con le genti autoctone ebbero origine i popoli storici che in seguito definirono il destino del nostro continente: celti, greci, germani, slavi, italici, iberi…
Questa “fusione” avvenne in modalità diverse, a seconda delle circostanze.
Vi furono casi in cui i conquistatori soggiogarono completamente i popoli autoctoni, mantenendo per sé il ruolo di classe egemone e relegando gli altri al ruolo di schiavi/servi, come presumibilmente fecero gli antichi spartani quando divisero la società in classi nettamente distinte, riservando per sé l’arte del governo e della guerra e confinando gli iloti al compito di schiavi-coltivatori.
In altri casi la fusione avvenne in maniera più graduale e la società che ne derivò risultò un amalgama tra la cultura dei vincitori e dei vinti.
Questo secondo caso fu quello che prevalse nel corso della storia, ed è quello che propriamente dette origine alla nostra civiltà.

Occorre a questo punto considerare un aspetto fondamentale: quando una cultura guerriera intraprende delle campagne militari, davanti a sé apre due distinte possibilità, il saccheggio e la conquista permanente del suolo.
Nel saccheggio un determinato territorio viene assalito, ci si appropria con la violenza dei beni che può offrire e ci si muove oltre.
In un’operazione di questo tipo lo sterminio delle popolazioni locali che si oppongono all’incursione non rappresenta un problema, così come il fare “terra bruciata” alle proprie spalle quando l’operazione è conclusa.
Quando invece, ed è il caso di cui stiamo trattando, una conquista vuole essere definitiva, con conseguente occupazione del suolo, la popolazione assalitrice una volta preso il controllo del territorio deve scendere a compromessi con gli sconfitti.
Anche mantenendo per sé infatti il ruolo egemone, c’è bisogno di persone adatte a procurare il sostentamento e le materie prime per la sopravvivenza della classe egemone.
In altre parole, se tutti gli sconfitti venissero eliminati, non resterebbe più nessuno disponibile a servire i nuovi padroni.
Sorgono quindi delle problematiche nuove: la vita degli sconfitti va preservata, e occorre anche fare in modo che essi siano disponibili a lavorare per i vincitori.
Un metodo possibile per ottenere tale obiettivo è quello utilizzato dagli spartani, ovvero il separare nettamente la società in classi e mantenere in stato di schiavitù i vinti.
Ma tale sistema risulta alla lunga fragile, ed i conquistatori, essendo sempre una piccola minoranza all’interno della nuova società formatasi, non potranno mai governare con totale sicurezza: le rivolte dettate dal malcontento dei soggiogati saranno sempre alle porte.

Il modello che invece ha alla lunga prevalso è stato quello della fusione graduale.
I vincitori hanno tenuto per sé il potere, formando l’aristocrazia, mentre i vinti sono stati inglobati all’interno di un sistema più morbido, dando loro anche la possibilità di partecipare attivamente, fino ad un certo punto, alla vita sociale della nuova realtà.
Col tempo poi le divisioni tra vinti e vincitori si sarebbero fatte sempre meno marcate, fino ad ottenere una società sempre composta da classi, ma in cui tale separazione sarebbe stata vissuta ormai come un dato di fato, come fosse “il corso naturale delle cose”.
In questo preciso momento storico, quello della fusione, trova origine anche il bagaglio di valori che l’occidente si è poi trasmesso per generazioni.

I vincitori, infatti, con la loro ideologia della conquista e la loro esaltazione delle virtù virili e violente, vennero a contatto con l’ideologia dei vinti, i cui valori rispecchiavano il rispetto del creato, la venerazione della terra e dei suoi prodotti e di conseguenza una naturale predisposizione verso la fratellanza e il rispetto reciproco.
La stessa società indoeuropea era nettamente separata in tre caste: vi erano i sacerdoti, i guerrieri, e i servi, ovvero coloro che avevano il compito di produrre i beni necessari alla sopravvivenza della comunità.
La casta dei guerrieri diede origine in seguito alla classe aristocratica, mentre a partire dal tardo medioevo alla casta dei servi si aggiunse quella dei mercanti, da cui poi si sviluppò la borghesia della società moderna; la casta dei servi fu formata dalla grande massa di contadini, per millenni la grande maggioranza della popolazione, che aveva il compito di coltivare il suolo e fornire il primo nutrimento per tutta la società; prese infine il nome di “forza lavoro” e di proletariato nell’età contemporanea.
Come si può notare, la separazione della società in classi della cultura indoeuropea è stata da noi ereditata in pieno, tanto da risultare per tutto il corso della storia occidentale un semplice “dato di fatto”.
Le società della Europa antica al contrario non seguivano una ripartizione tanto rigida: vi era una certa separazione dei compiti, ma in un contesto molto più fluido, e soprattutto non risulta che vi fossero differenze di status tra i componenti delle comunità tali da dare vita a strutture sociali piramidali.

Le stesse religioni dei due popoli guardavano verso direzioni diverse: gli dei degli indoeuropei abitavano il cielo, con Zeus Pater, lo Juppiter romano, a capo del pantheon.
Erano divinità guerriere, iraconde, scagliavano fulmini e dominavano le tempeste.
Le divinità dei popoli dell’Europa arcaica erano invece ctonie, abitavano la terra, e come la Madre Terra accoglievano nel loro grembo le creature.
Erano materne e offrivano sostentamento, e possedevano anche aspetti oscuri e terribili, dal momento che incarnavano l’essenza del femminile (questi aspetti oscuri inquietarono non poco i popoli conquistatori: la potenza celata e terrificante della Dea Madre appariva molto più spaventosa dell’ira guerriera delle divinità celesti).
Ne nacque un universo religioso del tutto nuovo, in cui nel pantheon celeste entrarono ora a far parte anche divinità femminili e protettrici, e accanto al culto degli dei guerrieri e degli eroi sopravvissero e prosperarono i culti misterici femminili e ctoni.

E la classe dirigente da allora dovette sviluppare anche un nuovo universo immaginale, un nuovo racconto ideologico ed una nuova scala di valori per mantenere in equilibrio la nuova società che ora si era formata.
Il guerriero indoeuropeo poteva infatti condurre la sua esistenza di conquistatore esaltando la violenza e le virtù guerriere, ma nel momento in cui divenne signore di popoli necessari al suo sostentamento dovette dare una nuova forma espressiva ai valori che gli sono propri.
Il coraggio e la forza rimasero sempre delle virtù indiscutibili, ma la violenza veniva ora giustificata solamente nei confronti delle popolazioni nemiche, e in altri casi particolari.
La nuova classe dirigente dovette mantenere l’ordine civile; di conseguenza concetti quali solidarietà, fratellanza, rispetto reciproco furono opportunamente sfruttati, approfittando del fatto che essi già facevano parte del bagaglio culturale degli sconfitti.
Tutto il complesso monumentale delle leggi, del diritto occidentale, non nasce come atto di spontanea benevolenza dei governanti nei confronti dei sudditi, ma come operazione necessaria per mantenere un ordine tra la massa degli sfruttati: la classe dirigente aveva infatti bisogno dei beni che i contadini e gli artigiani fornivano, e affinché questi ultimi potessero continuare ad essere produttivi necessitavano anche di agire in un contesto sufficientemente “sicuro”.
Si mise nero su bianco, da quel momento in poi, che la prevaricazione dell’uomo sull’uomo non era più accettabile; in realtà, la classe dominante non fece altro che assicurare tale prerogativa per se stessa.

E’ in questo momento che nasce la dicotomia tra azione e pensiero dell’occidente: mentre il guerriero indoeuropeo esaltava la guerra e la violenza e le praticava, e il contadino europeo credeva nella pace e viveva di conseguenza (e c’era quindi coerenza tra i valori predicati e la loro attuazione ) la nuova classe dirigente predica d’ora in poi le virtù dei vinti mentre continua ad agire secondo la propria scala di valori.
Si predica la fratellanza ma si sfruttano gli sconfitti, si esalta la pace ma si continuano a preparare le guerre.
Ha inizio la dissonanza cognitiva dell’occidente.

Da quel momento in poi nel corso della storia i due sistemi di valori si sarebbero sovrapposti in maniera precaria.
Tutta la civiltà europea ed occidentale si sarebbe sviluppata facendo propria a parole, nelle sue istituzioni e nei suoi componimenti, la morale degli sconfitti.
La bontà d’animo, la fratellanza e la pace sarebbero state ovunque osannate, lodate, indicate come obiettivo supremo che la civiltà stessa si pone.
Nello stesso momento, nell’atto di agire, ogni civiltà storica avrebbe fatta propria la concezione guerriera, laddove la guerra e la conquista rappresentavano un modo “lecito” per appropriarsi delle risorse altrui.

Morale dei servi, morale dei signori.

Diciamocelo francamente, come sino a oggi ogni civiltà superiore è cominciata sulla terra!
Uomini con un’indole ancora naturale, barbari in ogni terribile significato della parola, uomini da preda ancora in possesso di non infrante energie volitive e bramosie di potenza, si gettarono su razze più deboli, più ben costumate, più pacifiche, forse dedite al commercio o alla pastorizia, o su antiche civiltà marcescenti, in cui appunto l’ultima forza vitale fiammeggiava in rutilanti fuochi artificiali d’intelligenza e di pervertimento.
La classe aristocratica è stata sempre, in principio, la casta barbarica: la sua preponderanza non stava in primo luogo nella forza fisica, ma in quella psichica, – erano gli uomini piú interi (la qual cosa, a ogni grado, significa anche lo stesso che “bestia piú intera”).
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male.

Friedrick Nietzsche fu tra i primi ad individuare tale dicotomia nella società occidentale: nei suoi scritti chiama questi due sistemi morali “morale del signore” e “morale del servo”.
Mentre la prima, tipica dei guerrieri e degli uomini liberi, esalta la forza, la nobiltà, la spregiudicatezza e determina il valore di una azione in base al suo risultato, la seconda, tipica dei “deboli”, predica invece la bontà, la compassione, l’amicizia, e si confà a coloro che non hanno la forza necessaria per agire e covano rancore nei confronti dei potenti.
Nietzsche sosteneva che fosse il cristianesimo, e prima ancora l’ebraismo, il vero colpevole della diffusione della morale dei servi in occidente, e predicava un ritorno alla celebrazione della spinta vitale e della forza d’animo degna degli “spiriti liberi”.
In realtà, quella che Nietzsche chiamava con intento dispregiativo morale dei servi  era un sentire diffuso nel nostro continente molto ben prima dell’arrivo delle religioni abramitiche.

Occorre qui fare una doverosa precisazione: si possono considerare le scale dei valori dei popoli in base a due criteri.
Il primo criterio è quello della propria coscienza personale, quella che ci suggerisce cosa sia “giusto” o “sbagliato” a priori.
L’altro criterio è quello della coerenza.
Un popolo guerriero che considera la forza fisica una virtù, e la soppressione del più debole quale legge naturale, nel momento in cui attua la guerra e la conquista si comporta in maniera coerente con il suo pensiero.

Il vero problema della società occidentale contemporanea è che non esiste coerenza tra lo schema di valori che diciamo di seguire e il modo di agire del sistema che abbiamo costruito.
La retorica occidentale, democratica, egualitaria, solidale, compassionevole, è in netto contrasto con una società strutturata invece sul prevalere continuo sul prossimo.
Dal singolo essere umano, che deve calpestare gli altri per farsi strada nella società, agli stati stessi, che onorano la pace e la fratellanza e praticano incessantemente guerre di conquista, militari ed economiche.
L’occidente è schizofrenico, e la dicotomia tra retorica e prassi rappresenta la vera malattia che corrode gli uomini e la società dall’interno.
I segnali che giungono e che formano la nostra ideologia sono sempre più contrastanti: la bontà e la generosità vengono apertamente lodate quali virtù, mentre in privato si dileggiano e si indicano quale sintomo di debolezza.
La furbizia e l’arte dell’inganno vengono stigmatizzate a parole, mentre si coltivano alacremente dietro le quinte.
Nel suo profondo la nostra società porta ancora l’impronta dell’ideologia degli antichi indoeuropei: il più forte attua la conquista, la soppressione del più debole è ancora considerata espressione del corso naturale delle cose.
La maschera che indossa ha invece il volto pacifico della Dea Madre nella sua versione accogliente: si augura ogni bene al prossimo, si fa beneficenza, ci si commuove per i meno fortunati.
Queste due ideologie stanno alla base del nostro schema di valori, della nostra morale condivisa: si tratta di due ideologie contrapposte, che nei millenni l’occidente ha tentato di amalgamare.
Il risultato è una malattia di fondo irrefrenabile, perché il contrasto tra le parole e gli atti logora gli uomini così come la società.

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Letture consigliate

Francisco Villar, Gli indoeuropei e l’origine dell’Europa
Marija Gimbutas, Kurgan. Le origini della cultura europea
Iaroslav Lebedynsky, Gli Indoeuropei. Fatti, dibattiti, soluzioni
Georges Dumezil, Ideologie miti massacri : indoeuropei
Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni
Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila anni
Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno
Massimo Fini, Il vizio oscuro dell’occidente. Manifesto dell’antimodernità
Friedrick Nietzsche, Genealogia della morale
Friedrick Nietzsche, Al di là del bene e del male
William Blake, Il matrimonio del cielo e dell’inferno

11 Marzo 2017

Dimissioni di Benedetto XVI, emergono ulteriori dettagli

A distanza di quattro anni dalle dimissioni di Papa Benedetto XVI, stanno emergendo nuovi particolari riguardo le circostanze che portarono a quella decisione, inaspettata e sicuramente straordinaria nel complesso della bimillenaria storia della Chiesa Cattolica Romana.
Una decisione per certi versi ancora di difficile comprensione, le cui motivazioni vanno forse cercate in processi politici ed epocali a cui anche un Vescovo di Roma deve sottostare.
Il giornalista Maurizio Blondet in un suo articolo del 2015 – Ratzinger non poté “né vendere né comprare – parlò di un fattore che sarebbe risultato decisivo nello spingere il Papa verso quella sofferta decisione, una sorta di ricatto vero e proprio mosso contro il Vaticano dalla grande finanza internazionale:

Quando, nel febbraio 2013, Papa Benedetto XVI si è dimesso improvvisamente e inspiegabilmente,lo IOR era stato escluso da SWIFT; con ciò, tutti i pagamenti del Vaticano erano resi impossibili, e la Chiesa era trattata alla stregua di uno stato-terrorista (secondum America), come l’Iran.
Era la rovina economica, ben preparata da una violenta campagna contro lo IOR, confermata dall’apertura di inchieste penali della magistratura italiana (che non manca mai di obbedire a certi ordini internazionali).
Pochi sanno che cosa è lo SWIFT (la sigla sta per Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication – Società per le telecomunicazioni finanziarie interbancarie): in teoria, è una “camere di compensazione” (clearing, in gergo) mondiale, che unisce 10500 banche in 215 paesi.
Di fatto, è il più occulto e insindacabile centro del potere finanziario americano-globalista, il bastone di ricatto su cui si basa l’egemonia del dollaro,  il mezzo più potente di spionaggio economico e politico (a danno specialmente di noi europei) e il mezzo più temibile con cui il la finanza globale stronca le gambe agli stati che non obbediscono.

Nei giorni scorsi, l’ex arcivescovo di Ferrara Luigi Negri, in una intervista al sito Riminiduepuntozero, ha parlato apertamente di pressioni esercitate all’epoca dall’amministrazione Obama per portare Benedetto XVI alla rinuncia della sua missione, accuse ribadite anche da Ettore Gotti Tedeschi, ex banchiere dello Ior, la potente banca che cura gli affari della curia romana.
In particolare, risultano oltremodo lucide e sorprendenti le parole di Gotti Tedeschi quando spiega il progetto politico  che una certa elite porta avanti da decenni, nel suo tentativo di ridisegnare la struttura sociale del pianeta:

Il complotto appare essere americano solo perché loro hanno avuto la guida del Nuovo Ordine Mondiale. Vede, il complotto, se così possiamo chiamarlo, fu mirato a cercar di risolvere alcuni problemi causati dal fallimento del famoso Nuovo Ordine Mondiale degli anni ’70, gnostico neomalthusiano e ambientalista.
Questo progetto di Nuovo Ordine, dichiaratamente, si prefiggeva (tra le varie cose) la relativizzazione delle fedi religiose più dogmatiche e manifestamente dimostrò di avversare tanto la fede cattolica da far dichiarare pubblicamente – e dai massimi responsabili Onu, Oms… – che l’etica cristiana non poteva più esser applicata e che si doveva esigere il sincretismo religioso per creare una nuova religione universale (anche grazie ai processi di immigrazione).

Il famigerato Nuovo Ordine Mondiale, quindi, “gnostico neomalthusiano e ambientalista“, secondo le parole di Gotti Tedeschi, lungi dall’essere una fumosa ossessione relegata nello strambo universo dei “teorici della cospirazione”, appare una realtà, un progetto sociale preciso di cui ai piani alti del potere si ha piena cognizione.
Lo stesso Ratzinger, quando ancora era cardinale, nella prefazione al libro “Nuovo Disordine Mondiale” di Michel Schooyans dimostrava di conoscere molto bene l’ideologia e gli scopi che tale Nuovo Ordine si prefiggeva.

un tentativo di “dittatura mondiale” perseguita dai paesi più ricchi e che si avvale, nella visione proposta, di importantissimi strumenti politici quali l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), l’O.N.U., le ONG, la Banca Mondiale e tutte le organizzazioni ad esse collegate.

Pare quindi che Ratzinger abbia infine pagato questa sua consapevolezza, e il suo profondo tentativo, fatto di un lavoro silenzioso, lontano dal clamore mediatico, di difendere l’essenza della Chiesa Occidentale dagli attacchi delle forze “moderniste” lo ha infine posto di fronte a dei nemici potenti, nemici contro cui anche il Vescovo di Roma dovette farsi da parte.

9 Maggio 2016

Il Fabianesimo e la Finestra dell'inganno

In occasione dell’elezione di  Sadiq Khan, primo sindaco musulmano di Londra – figlio di immigrati pakistani, laburista, progressista, in altre parole immagine dell’uomo nuovo pensato per noi dai centri di indrottinamento – proponiamo un vecchio articolo che descrive le origini, gli scopi e metodi della Società Fabiana, uno dei club elitari più influenti nella politica del XX secolo.
Il neosindaco della capitale inglese è stato infatti presidente di questa elitaria società, perchè nelle società democratiche è sempre il popolo che sceglie i suoi rappresentanti.

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“Questa nuova e completa Rivoluzione che noi contempliamo può essere definita in poche parole. è socialismo mondiale assoluto, scientificamente pianificato e diretto..”
tratto da ‘The New World Order’ (1939) di H.G. Wells


La Società Fabiana fu una associazione elitaria formatasi a Londra sul finire del XIX secolo, un think tank fondato da una compagnia di illustri intellettuali che misero a punto un movimento politico destinato a giocare un ruolo di primo piano nella storia sociale del XX e del XXI secolo, il Fabianesimo.
Riformulando e perfezionando la dottrina socialista, il Fabianesimo si prefiggeva di rimodellare le strutture politiche e sociali dell’intero pianeta con un programma di lungo corso, fatto di lenti e modesti cambiamenti.
Non a caso, l’emblema principale della Società è rappresentato da uno stemma raffigurante un lupo che si cela sotto una veste di agnello.

Nell’articolo che segue, il blogger Rantasipi partendo dall’analisi di una particolare finestra collocata nella prestigiosa London School of Economics, delinea scopi e modus operandi dei fabiani, nelle cui fila non mancarono, e non mancano, nomi assai famosi.

La Finestra dell’Inganno


di Rantasipi

(cliccare sull’immagine per una risoluzione maggiore)

Per chi avesse ancora dubbi riguardo l’esistenza di un preciso disegno dietro al quale si celano politiche economiche e culturali destinate a far precipitare il mondo nella voragine dell’annientamento sociale, forse potrebbe essere utile dare uno sguardo a questa particolare finestra, collocata nel 2006 presso la sede della prestigiosa London School of Economics (LSE).

Si tratta di una finestra realizzata con vetri colorati rilegati a piombo raffigurante una scena che può dire molto sull’origine e la portata degli eventi che questa crisi finanziaria (come quelle precedenti) lascia intravedere. L’opera fu commissionata dal famoso drammaturgo George Bernard Shaw, fondatore, assieme a Sidney Webb e a sua moglie Beatrice Potter, del fabianesimo, corrente politico-filosofica socialista, facente capo alla semisegreta Fabian Society, la quale differisce dall’ortodossia marxista principalmente per questioni di metodo, pur condividendone gli obiettivi ultimi.
Disse infatti Shaw:

“Sotto il Socialismo, non vi sarebbe consentito essere poveri. Sareste nutriti con la forza, sareste vestiti e dotati di un alloggio, sareste istruiti e provvisti di un impiego, sia che vi piaccia oppure no. Se si scoprisse che non possedete carattere e industriosità sufficienti per meritarvi tutto ciò, probabilmente verreste eliminati in modo dolce; ma se vi fosse permesso di vivere, dovreste vivere bene”.

Com’è noto, alla pari del Lucifero biblico, i socialisti rimarcano sempre la “bontà” delle loro intenzioni nell’uso della forza, della coercizione, e dell’intimidazione. E il credente non mancherà di osservare che l’ammissione di Shaw presenta una sinistra analogia con la linea di condotta di Lucifero, scagliato giù dal paradiso per aver cercato di sottrarre all’uomo il libero arbitrio, il diritto di scegliere (quindi di sbagliare) e di essere libero, affinché non commettesse più errori. Suona bene? George Bernard Shaw evidentemente pensava di sì e con lui David Rockefeller, il quale, nel suo libro La mia vita (2002) candidamente ammise:

“Per più di un secolo estremisti ideologici sui due fronti dello spettro politico hanno strumentalizzato su ben noti accadimenti come il mio incontro con Castro al fine di attaccare la famiglia Rockefeller per l’eccessiva influenza che essi ritengono eserciti sulle istituzioni politiche ed economiche americane. Alcuni addirittura credono che facciamo parte di una cabala segreta che opera contro i migliori interessi degli Stati Uniti, dipingendo me e la mia famiglia come ‘internazionalisti’ che assieme ad altri cospirano per costruire una struttura politico-economica globale più integrata – un unico mondo, se preferite. Se questa è l’accusa, mi dichiaro colpevole, e ne sono orgoglioso”.

I fabiani, a differenza dei marxisti ortodossi che hanno fatto della rivoluzione violenta il loro strumento di azione politica, ritengono che il socialismo sia perseguibile attraverso riforme graduali. Essi infatti devono il loro nome al generale romano Quinto Fabio Massimo, detto appunto il Temporeggiatore (Cunctator), il quale, nella lotta contro Cartagine, adottò una strategia di lento logoramento psicologico dell’avversario. Non a caso, uno dei simboli della Fabian Society è la tartaruga.

Nell’incipit dei “Saggi Fabiani”, il testo in cui si esplicita il programma dell’organizzazione, troviamo il motto:

“Il fabianesimo si nutre di capitalismo, il suo escremento è il comunismo”.

La Fabian Society fu la componente essenziale per la creazione del Labour Party britannico e il legame fra le due organizzazioni rimane ad oggi ancora molto forte. Solo verso la metà degli anni ‘30 la Fabian Society conobbe una fase di declino, dovuta alla divergenza di vedute fra i membri in merito all’esperienza del totalitarismo sovietico e alla perdita di influenza del partito laburista in cui si innestavano componenti sindacaliste e, contemporaneamente, fuoriuscivano numerosi elementi attratti dalle camicie blu del British Union of Fascist di Oswald Mosley (anch’egli fabianista).

Tuttavia, la maggior parte degli obiettivi della Fabian Society, possono dirsi raggiunti; le “riforme” adottate da Franklin Delano Roosevelt durante la Grande Depressione e che oggi la Scuola Austriaca di economia sostiene siano alla base delle storture finanziarie e monetarie responsabili delle crisi economiche come quella che stiamo attraversando, sono di chiara impronta fabianista; l’assistenzialismo welfarista imperante nella maggioranza dei sistemi politico-economici mondiali è frutto del lavoro della Fabian Society. E la socializzazione dell’economia (corporativismo) di cui ancora oggi l’Italia (e non solo) mantiene intatta la struttura, nasce durante il fascismo con Nicola Bombacci, anch’esso ispiratosi agli insegnamenti dell’organizzazione britannica.

Questa sommaria descrizione della natura della Fabian Society e del fabianesimo si è resa necessaria per una lettura della raffigurazione contenuta nella finestra commissionata da G. B. Shaw.
La figura, ritrae Shaw e Webb nell’atto di prendere a martellate un mappamondo e per comprendere il significato del gesto è utile risalire ai versi del poeta e astronomo persiano dell’XI secolo
Omar Khayyam:

Amore caro. Potessimo tu ed io cospirare con il destino
per afferrare interamente il dolente disegno di tutte le cose,
Non lo manderemo in frantumi – per poi
rimodellarlo secondo i desideri del cuore?

Si tratta di un breve poemetto romantico, ma di buoni propositi è lastricata la via dell’inferno, per questo, se estrapolata dal contesto, l’ultima strofa riportata in cima alla finestra (Remould it to the hearth’s desire), assume un significato del tutto diverso, non difficilmente riconducibile alla citazione di Shaw sopra riportata.

Sotto ai fondatori del fabianesimo intenti a rimodellare il mondo secondo i loro programmi, troviamo come allegoria delle docili masse una fila di donne genuflesse in adorazione di una pila di tomi socialisti e, alla sinistra di questo gruppo di figure femminili, un beffardo H.G. Wells che le schernisce. Lo scrittore, anch’egli appartenne alla Fabian Society, dalla quale però si allontanò non appena comprese le reali intenzioni dell’organizzazione che denunciò pubblicamente come “un manipolo di nuovi Macchiavelli”.

Ma a chiarire il significato della composizione è un dettaglio che compare sopra ai due illustri esponenti fabiani, ed è l’emblema stesso dell’organizzazione socialista, ovvero il lupo travestito da agnello, simbolo dell’inganno per eccellenza.

Come dicevo, la finestra, inspiegabilmente “scomparsa” e poi altrettanto misteriosamente riapparsa ad un’asta di Sotheby nel 2005, venne installata nel 2006 presso la London School of Economics and Political Science, il prestigioso istituto voluto e finanziato dal filosofo Bertrand Russell e dai fabiani.

Fu l’allora primo ministro britannico Tony Blair (manco a dirlo, fabiano pure lui) che nel solenne discorso di inaugurazione dichiarò come questo “augusto centro di apprendimento” fosse associato alla Società Fabiana, di cui sottolineò l’abilità dissacrante dei membri rispetto al “pensiero tradizionale” dominante.

“Essi dubitavano di ogni forma di saggezza convenzionale” si compiaceva Blair, indicando l’emblema dell’inganno. Inutile dire che il lupo travestito da agnello, simbolo dell’inganno elevato a principio fondante, se posto in un istituto formativo come la LSE diventa esso stesso principio educativo. I margini della libera interpretazione si riducono notevolmente se si considera che dalla LSE sono usciti numerosi personaggi successivamente ritrovatisi alla guida di cruciali istituzioni politiche, economiche ed accademiche. Fra questi spiccano – non certo per bontà delle idee – John Maynard Keynes, George Soros e Romano Prodi.


13 Febbraio 2016

Dresda 1945: la banalità del bene

Dresda, 13 Febbraio 1945

C’erano i buoni da una parte, e c’erano i cattivi dall’altra.
I cattivi volevano imporre la loro dittatura su tutto il mondo, i buoni si battevano per la libertà e per la democrazia.
Per fortuna, e grazie a Dio, hanno vinto i buoni, perché il bene vince sempre, alla fine, e noi oggi siamo liberi e democratici.
Questo è il mito fondante della nostra civiltà contemporanea, e questo ci viene insegnato sin da bambini sui banchi di scuola.
E i cattivi facevano veramente delle cose orribili, ed avevano una ideologia terribile.
E su questo ci sono pochi dubbi.
Ma a volte qualcosa non torna nemmeno quando si studia la storia dei buoni.
Ci fu Hiroshima, ci fu Nagasaki.
Si calcolano circa 200.000 vittime.
Fu necessario, ci viene detto.
200.000 morti necessarie.
Necessarie per cosa, verrebbe da chiedersi, per evitare cosa?
Cosa peggio di 200.000 persone che muoiono nel giro di tre giorni?
Fu necessario per concludere la guerra, ci viene spiegato.
In fondo, se i buoni hanno fatto una cosa del genere, ci sarà stato un buon motivo.
Così ci fu Hiroshima, e Nagasaki.
E prima ancora ci fu Dresda.

Dresda, 13 Febbraio 1945

Non se ne parla molto, di Dresda.
Anche i buoni a volte fanno delle cose di cui un po’ si vergognano.
Era il 13 Febbraio del 1945, 71 anni fa.

Alle ore 22.08 di martedì grasso (13 febbraio 1945) le sirene di allarme aereo vennero a interrompere i clown che si stavano esibendo nel carosello finale allo spettacolo carnevalesco del Circo Sarassini.
[…]
Due soli minuti dopo il cielo incominciava ad affollarsi: i primi quadrimotori Lancaster dell’83° squadriglia inglese lasciavano cadere grappoli di bengala che illuminavano a giorno la città, poi seguirono pochi Mosquitos, agili cacciabombardieri il cui compito era quello di individuare con bombe segnaletiche rosse l’epicentro del bombardamento, lo stadio sportivo.
I Mosquitos fecero egregiamente il loro compito: nel centro esatto dello stadio si levava ora una luminosissima colonna rossa. I bombardieri avevano il loro bersaglio.

Dalle 22.13 alle 22.30 i Lancaster scaricano sulla città le terribili bombe dirompenti da 1.800 e 3.600 libbre. Poi si allontanano in direzione di Strasburgo, volando bassi per sfuggire ai radar tedeschi. I soccorsi iniziano ad affluire dalle città vicine, mentre gli abitanti escono lentamente dai rifugi. Erano quello che attendevano gli alleati: far uscire la gente, far arrivare i soccorsi, e tornare a colpire.

La “Tecnica del massacro”.

Ore 1.28 del 14 febbraio. La seconda ondata arriva, indisturbata come la prima. Altri 529 Lancaster portano nelle stive 650.000 bombe: per lo più sono tutti ordigni incendiari. E’ l’inizio dell’inferno. Bombardando a destra e a sinistra delle zone già colpite dal primo attacco gli inglesi riescono a provocare la tempesta di fuoco. Dalle case già sventrate dalle bombe dirompenti viene aspirato ogni oggetto e ogni persona che si trovi nel primo chilometro dall’immane incendio.
[…]
Il pilota di un Lancaster rimasto indietro racconterà: “C’era un mare di fuoco che secondo i miei calcoli copriva almeno un centinaio di chilometri quadrati. Il calore era tale che si sentiva fin nella carlinga; eravamo come soggiogati di fronte al terrificante incendio, pensando all’orrore che c’era là sotto… “
Alla fine si calcola che i morti furono 135.000, probabilmente 200.000.
La II Guerra Mondiale stava giungendo a termine, la Germania era prossima a capitolare, e Dresda era una città senza impianti di produzione bellica, senza difesa contraerea, abitata da civili e da profughi che vi avevano trovato rifugio, in quanto era diffusa la convinzione che gli alleati non avrebbero avuto nessun motivo per attaccare una città indifesa che non rappresentava nessuna fonte di pericolo.
Dresda, 13 Febbraio 1945

Eppure quell’attacco ci fu, a freddo; un’operazione che aveva il solo scopo di diffondere il massacro e il panico tra la popolazione; una sorta di punizione collettiva, fatta dai buoni contro i cattivi.
E quella guerra i cattivi la persero, alla fine.
Ma furono davvero i buoni, quelli che vinsero?

 

Dresda, 14 febbraio 1945