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La Religione del
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Con la scusa dell’ Ambientalismo.
Progetti di sterminio.






¿te quedarás, mi pesadilla
rondándome al oscurecer?


-o- Too late to die young -o-
15 Marzo 2015

Acqua

 

Quando ho smesso di pensare ho compreso, ho spento la mente e ho visto.
Non era rose e non era spine, non era un canto e nemmeno un dolce sentire.
L’amore non inizia, gli amori non finiscono.
Sei tu che gli vai incontro, sei tu che lo attraversi.
Puoi anche pensare di esserti lasciato l’amore alle spalle, ma in realtà è lui che si è tenuto qualcosa di te.
Tu sei solo una sua creatura.

L’ho visto chiaramente, l’amore è acqua.
E’ fiume, è mare, è oceano, è ruscello che scorre lento, è cascata inarrestabile.
E’ una fonte che zampilla, uno stagno che rinsecca.
Inutile dargli un nome, nulla lo contiene.
Inutile distinguere le sue manifestazioni.
L’amore per una madre, per una donna lontana, per un sole invernale, per un cane, per i colori dell’alba, per un abbraccio, acqua che muta nella forma ma non nella sostanza.
Acqua che scorre, che ristagna, che evapora e diventa nuvola, acqua che come pioggia ritorna a bagnare il mondo.
E tu non senti l’amore, non provi amore.
Tu nell’amore ci anneghi, ci nuoti, ci affondi, ne sei circondato.
Non puoi dargli nomi, non puoi tenerlo tra le mani per studiarlo.
Lui scorre, e tu ci nuoti dentro.

 

15 Marzo 2015

Il Serpente e il Pavone

Storie sufi

Un giorno, un giovane di nome Adi il Calcolatore – perché aveva studiato matematica – decise di lasciare Buchara e di partire alla ricerca della conoscenza superiore.
Il suo maestro gli consigliò di viaggiare verso sud e disse: “Cerca il significato del Pavone e del Serpente”. Ciò diede al giovane Adi materia di riflessione.
Egli attraversò il Khorassan e arrivò finalmente in Iraq, dove, con sua grande sorpresa, si imbattè in un pavone e in un serpente.
Adi intavolò una conversazione. “Stiamo discutendo dei nostri rispettivi meriti”, gli dissero.
“È precisamente ciò che vorrei studiare”, disse Adi. “Continuate, vi prego”.
“Ritengo di essere il più importante”, disse il pavone. “Rappresento l’aspirazione, lo slancio verso il cielo, la bellezza celestiale e, quindi, la conoscenza delle realtà superiori. La mia missione è di ricordare all’uomo, attraverso la mimica, gli aspetti del suo essere che gli sono celati”.
“Per quanto mi riguarda”, disse il serpente con voce leggermente sibilante, “rappresento esattamente le stesse cose.
Come l’uomo, sono legato alla terra. Lo aiuto quindi a ricordarsi di se stesso. Sono flessibile come lui quando avanzo sul terreno serpeggiando. Egli si dimentica spesso anche di questo. Per tradizione, sono il guardiano dei tesori sepolti nel più profondo della terra”.

“Ma sei repellente!”, esclamò il pavone. “Sei sornione, dissimulatore e pericoloso”.
“Stai elencando le mie caratteristiche umane”, replicò il serpente, “mentre io preferisco elencare le mie altre funzioni, come ho appena fatto.
Insomma! guardati: sei vanitoso, paffuto, e il tuo grido è stridulo. Le tue zampe sono troppo grandi e anche le tue piume sono troppo sviluppate”.
A questo punto Adi li interruppe. “Grazie alla vostra discordia, ho potuto capire che nessuno di voi ha completamente ragione. Eppure, se si escludono le vostre preoccupazioni personali, appare chiaro che insieme costituite un messaggio per l’umanità”.

Adi spiegò quindi ai due antagonisti quali erano le loro funzioni.
“L’uomo striscia al suolo come il serpente e potrebbe innalzarsi nel cielo come l’uccello, ma, avido come il serpente, non rinuncia al suo egoismo quando cerca di elevarsi e diventa troppo orgoglioso come il pavone.
Nel pavone possiamo scorgere le potenzialità dell’uomo, ma non ancora propriamente realizzate, mentre nella lucentezza del serpente possiamo scorgere la possibilità della bellezza che, nel pavone, assume un aspetto sgargiante”.
Fu allora che una Voce ulteriore parlò ad Adi: “Non è tutto. Queste due creature sono dotate di vita: è il loro fattore determinante.
Litigano perché ognuna si è accontentata del proprio modo di vita, pensando che costituisse la realizzazione di uno status reale.
Tuttavia, una custodisce dei tesori, ma non può attingervi. L’altra riflette la bellezza, che in se stessa è un tesoro, ma non può servirsene per trasformarsi. Benché non abbiano approfittato di ciò che è stato loro offerto, ne sono pur sempre un simbolo, per coloro che sanno vedere e sentire”.

 

11 Marzo 2015

Sezione Download

Nella pagina dei download, recentemente introdotta, sono disponibili i primi pdf creati raggrupando articoli trattanti gli argomenti principali del blog.
In alcuni casi i singoli brani sono capitoli di uno scritto articolato, in altri un medesimo tema è via via analizzato da diversi punti di vista.
Conto in futuro di aggiungere ulteriore materiale nella pagina, disponibile per essere liberamente scaricato.

9 Marzo 2015

I custodi

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6 Marzo 2015

Autorità, coscienza ed obbedienza

Il flusso del potere – Parte IV

L’eunuco si fregò le mani incipriate. «Posso congedarmi da te con un piccolo indovinello, lord Tyrion?»
Proseguì senza attendere una risposta: «Tre grandi uomini siedono in una stanza, un re, un prete e un ricco con il suo oro. Tra loro c’è un mercenario, un ometto di umili origini e senza troppo cervello. Ognuno dei tre grandi uomini ordina al mercenario di uccidere gli altri due.
“Uccidili” dice il re “perché io sono il tuo signore.”
“Uccidili” dice il prete “perché io te l’ordino nel nome degli Dei.”
“Uccidili” dice il ricco “e tutto quest’oro sarà tuo.”
Per cui, dimmi, mio lord: chi sarà a vivere e chi a morire?». […]
«Il re, il prete e il ricco… chi vive e chi muore? A chi di loro obbedirà il mercenario? E’ un indovinello che non ha risposta. O meglio, che di risposte ne ha troppe. Tutto dipende dall’uomo con la spada.»
«Eppure, quell’uomo non è nessuno» commentò Varys. «Non possiede corona, né oro, né il favore degli Dei. Possiede solo un pezzo di acciaio acuminato.»
«Ma quel pezzo d’acciaio ha il potere di vita e di morte.»
«Per l’appunto… Quindi, se sono i guerrieri, in realtà, a dominare il mondo, per quale motivo facciamo finta che siano i re a detenere il potere? […]»
«Perché (quei re) possono chiamare altri uomini, con altre spade.»
«E allora sono quegli altri uomini con le spade ad avere il potere. Ma lo hanno veramente? Da dove provengono le loro spade? Perché quegli uomini, alla fine, obbediscono?»
Varys continuò a sorridere. «C’è chi dice che il sapere è potere. Altri dicono che il potere arriva dagli Dei, altri ancora che deriva dalla legge. […]»
«Facciamola finita, Varys.» Tyrion tornò a inclinare la testa di lato. «Hai intenzione di darmi una risposta al tuo maledetto enigma, o vuoi solo che il mio mal di testa peggiori?»
«Vuoi la risposta? Eccola.» Varys non smise di sorridere. «Il potere risiede dove un uomo crede che risieda. Nulla di più, nulla di meno.»
Il Regno dei Lupi, George R. R. Martin

 

L’essere umano si comporta in maniera differente a seconda che si trovi da solo oppure all’interno di un contesto collettivo, e questo non rappresenta certo un mistero.
Quello che invece potrebbe stupire è il comprendere quanto questa diversità possa risultare marcata in determinati contesti sociali: non si tratta infatti di un semplice adattamento per venire incontro alle norme di comportamento civile a cui tutti, in qualche maniera, sono stati educati sin da bambini, ma di un vero e proprio emergere di una persona diversa, che presenta caratteristiche che nel singolo si manifestano solamente in dei precisi scenari.

L’uomo come mammifero sociale

L’uomo, tra le altre cose, è anche un mammifero, e la zoologia ci suggerisce un indizio importante per introdurre l’argomento che qui verrà trattato.
I mammiferi, infatti, si dividono in due gruppi, quelli che conducono una vita perlopiù solitaria, marcando un proprio territorio personale, cacciando e nutrendosi da soli, e quelli che vivono in branchi, in gruppi sociali complessi all’interno dei quali si sviluppano delle precise gerarchie.
Caratteristica di ogni branco è la presenza di uno o più leader, le cui decisioni sono seguite dal resto del gruppo senza esitazione.
E’ essenziale notare che gli esseri umani sono stati in grado di addomesticare solamente i mammiferi facenti parte della seconda categoria, dal momento che solo sostituendosi al ruolo di leader naturale di un branco l’uomo può assoggettare gli animali al suo volere, impartendo ordini che verranno placidamente eseguiti.

Tutte le specie di grandi mammiferi addomesticate infatti rispondono a tale criterio: vivono in branchi, grandi o piccoli, sottostanno ad una struttura gerarchica, hanno un leader riconosciuto e non sono territoriali.
L’uomo quindi non deve fare altro che prendere il posto del leader, del capobranco, e potrà essere obbedito dal resto dei componenti del gruppo.
L’esempio più comune a cui pensare è quello della domesticazione dei cani, che nei loro padroni individuano quello che per i loro antenati lupi era il maschio alfa, l’esemplare dominante, a cui riservavano totale dedizione.
Lo stesso accade per i cavalli, che nello stato selvaggio vivono in piccoli branchi rigidamente gerarchici facenti capo alla femmina più anziana, o con le pecore, laddove il pastore diviene guida indiscussa.
Una specie i cui esemplari non costituiscano un branco con un leader riconosciuto non potrà mai essere addomesticata, per quanti tentativi si facciano.

Dal canto suo, l’essere umano si differenzia dai suoi parenti mammiferi sotto innumerevoli aspetti, e non rientra appieno all’interno di alcuna delle due categorie, oscillando dall’una all’altra a seconda della situazione sociale in cui si trova, a seconda della propria indole personale e di mille altri fattori; nonostante questo, anche l’uomo generalmente riproduce a sua volta legami sociali che per molti aspetti sono riconducibili a quelli sviluppati dagli animali che vivono in branchi.

L’uomo all’interno di questi contesti sociali crea delle gerarchie dove riconosce dei leader portatori di una certa autorità, al cui volere si assoggetta, entro determinati confini.
Che si tratti della famiglia, della scuola, dell’esercito, del sistema democratico, gli uomini tendono a riconoscere delle autorità legittime nel loro campo di competenza, e i loro ordini saranno eseguiti con diligenza.
Ma come muta l’atteggiamento del singolo a seconda che si trovi ad agire in autonomia oppure dietro la spinta di un’autorità riconosciuta?

La coscienza collettiva

Gustave Le Bon nel suo celebre Psicologia delle folle, analizzando il comportamento del singolo che viene a far parte di un grande gruppo di persone, di una folla, introdusse il concetto di anima collettiva.

In talune circostanze prestabilite, e soltanto in tali circostanze, un agglomeramento di uomini possiede caratteri nuovi, molto diversi da quelli degli individui di cui esso si compone.
La personalità cosciente svanisce, i sentimenti e le idee di tutte le unità sono orientate in una stessa direzione.
Si forma un’anima collettiva, senza dubbio passeggera, ma che presenta ben precisi caratteri.
La collettività diventa allora ciò che, per mancanza di una migliore espressione – io chiamerei una folla organizzata, o, se lo preferite, una folla psicologica.

Le Bon quindi descrive il modo in cui l’anima del singolo, la sua coscienza, possa in determinate situazioni eclissarsi, sostituita da una coscienza superiore, collettiva.
In una situazione simile il singolo è aperto a ricevere e a fare suoi stimoli che gli giungono dall’esterno, pronto ad agire in maniera anche non conforme con i propri precetti etici e morali, dal momento che la sua propria coscienza è momentaneamente sostituita.
Le Bon nella sua disamina descrive il modo in cui un abile leader, o un bravo oratore, possa in tale circostanza assumere il controllo della folla, dando egli voce alla coscienza collettiva pronta ad essere accolta dalla massa.
La storia passata, remota e prossima, e il nostro stesso presente sono la prova pratica di come questo processo non sia solamente teorico, ma abbia avuto con regolarità applicazioni pratiche.
Non a caso, i maggiori dittatori ed incantatori di folle del XX secolo, da Hitler a Stalin a Mussolini, furono avidi studiosi dei testi di Le Bon, ed usarono le sue scoperte nel campo della psicologia sociale a proprio vantaggio, per meglio manipolare i propri sudditi e spingerli in imprese terribili che alla maggior parte delle singole coscienze sarebbero apparse mostruose.

Obbedienza all’autorità, l’esperimento di Milgram

Questa forma di alienazione dalla propria coscienza da parte del singolo fu investigata da un’ulteriore angolazione dal psicologo americano Stanley Milgram negli anni 60, nel celebre esperimento che porta il suo nome.
Milgram, che diede un enorme contributo alla scienza della psicologia sociale, voleva dare una risposta ad un interrogativo oltremodo scomodo che all’epoca tormentava il mondo occidentale: a pochi anni dalla conclusione della seconda guerra mondiale, ancora l’occidente non poteva spiegarsi come una dottrina di morte e sterminio avesse potuto fare breccia nella maggioranza della popolazione di alcuni stati definiti “civili”, e come un numero così grande di persone si fosse prestato per attuare piani di sterminio pianificati da una elite di menti criminali.
Un aspetto infatti che aveva scosso l’opinione pubblica del dopoguerra fu lo scoprire che tra gli esecutori dei piani di sterminio nazisti si trovavano una schiera di grigi e anonimi burocrati, persone dalla vita normale che si erano trovati nei diversi gradi della catena di comando ed avevano obbedito ai loro superiori svolgendo con meticolosità il proprio compito, semplicemente, come se si fosse trattato di un lavoro burocratico qualunque.

Non c’erano mostri grondanti sangue tra gli esecutori dei piani, ma persone “normali” che facevano il loro dovere, in maniera asettica.
Milgram quindi voleva comprendere se il caso tedesco fosse un unicum, oppure se in determinate situazioni gli uomini possono davvero arrivare a compiere atti che vanno chiaramente contro la propria coscienza per il solo fatto di ubbidire agli ordini di una autorità riconosciuta.

L’esperimento messo in atto da Milgram venne allestito nel seguente modo:

I partecipanti alla ricerca furono reclutati tramite un annuncio su un giornale locale o tramite inviti spediti per posta a indirizzi ricavati dalla guida telefonica.
Il campione risultò composto da persone fra i 20 e i 50 anni, maschi, di varia estrazione sociale.
Fu loro comunicato che avrebbero collaborato, dietro ricompensa, a un esperimento sulla memoria e sugli effetti dell’apprendimento.
Nella fase iniziale della prova, lo sperimentatore, assieme a un collaboratore complice, assegnava con un sorteggio truccato i ruoli di “allievo” e di “insegnante”: il soggetto ignaro era sempre sorteggiato come insegnante e il complice come allievo.

I due soggetti venivano poi condotti nelle stanze predisposte per l’esperimento. L’insegnante (soggetto ignaro) era posto di fronte al quadro di controllo di un generatore di corrente elettrica, composto da 30 interruttori a leva posti in fila orizzontale, sotto ognuno dei quali era scritta la tensione, dai 15 V del primo ai 450 V dell’ultimo.
Sotto ogni gruppo di 4 interruttori apparivano le seguenti scritte: (1–4) scossa leggera, (5–8) scossa media, (9–12) scossa forte, (13–16) scossa molto forte, (17–20) scossa intensa, (21–24) scossa molto intensa, (25–28) attenzione: scossa molto pericolosa, (29–30) XXX.
All’insegnante era fatta percepire la scossa relativa alla terza leva (45 V) in modo che si rendesse personalmente conto che non vi erano finzioni e gli venivano precisati i suoi compiti come segue:
1. Leggere all’allievo coppie di parole, per esempio: “scatola azzurra”, “giornata serena”;
2. ripetere la seconda parola di ogni coppia accompagnata da quattro associazioni alternative, per esempio: “azzurra – auto, acqua, scatola, lampada”;
3. decidere se la risposta fornita dall’allievo era corretta;
4. in caso fosse sbagliata, infliggere una punizione, aumentando l’intensità della scossa a ogni errore dell’allievo.
Quest’ultimo veniva legato ad una specie di sedia elettrica e gli era applicato un elettrodo al polso, collegato al generatore di corrente posto nella stanza accanto. Doveva rispondere alle domande, e fingere una reazione con implorazioni e grida al progredire dell’intensità delle scosse (che in realtà non percepiva), fino a che, raggiunti i 330 V, non emetteva più alcun lamento, simulando di essere svenuto per le scosse precedenti.
Lo sperimentatore aveva il compito, durante la prova, di esortare in modo pressante l’insegnante: “l’esperimento richiede che lei continui”, “è assolutamente indispensabile che lei continui”, “non ha altra scelta, deve proseguire”.
Il grado di obbedienza fu misurato in base al numero dell’ultimo interruttore premuto da ogni soggetto prima che quest’ultimo interrompesse autonomamente la prova oppure, nel caso il soggetto avesse deciso di continuare fino alla fine, al trentesimo interruttore. Soltanto al termine dell’esperimento i soggetti vennero informati che la vittima non aveva subito alcun tipo di scossa.

Milgram descrisse il suo esperimento a colleghi e studenti, senza anticiparne i risultati, e tutti furono concordi nel sostenere che, a parte pochi casi di soggetti psicopatici, nessuna persona comune avrebbe portato avanti l’esperimento fino in fondo, rifiutandosi di proseguire di procurare dolore alla vittima.
In realtà, più del 60% dei partecipanti andò avanti nell’esperimento fino al termine, continuando a fornire scosse ben oltre i 450 V, ad un livello che sul macchinario era segnalato come “estremamente doloroso” e oltre.

Occorre ricordarsi che da un certo punto dell’esperimento in poi la “vittima”, legata ad una sedia ed impossibilitata a muoversi, implorava affinchè l’esperimento fosse terminato, gridando dal dolore e sostenendo di non poterlo più reggere.
Dopo la scossa dei 300 V le vittime simulavano inoltre uno stato di incoscienza, estremamente pericoloso quindi per la loro salute, ma anche questo non bastava per fermare i soggetti che continuavano a fornire le scosse.
Molti “insegnanti” mostrarono apertamente la propria preoccupazione, ed espressero anche i loro dubbi sul procedimento, ma solo una minoranza di loro si rifiutò di obbedire agli ordini dello sperimentatore, che intimava a procedere con l’esperimento.
Cosa era successo?
Come fu possibile che persone comuni, operai, professori, padri di famiglia irreprensibili, fossero arrivati al punto di provocare un dolore insopportabile ad un loro simile, che oltretutto non aveva alcuna colpa da scontare, né si poteva minimamente meritare un trattamento simile?
Era successo che i soggetti in questione si erano trovati in una condizione di eteronomia.

L’eteronomia (dal greco antico ἕτερος éteros «diverso, altro» e νόμος nómos «legge, governo») in sociologia e nell’etica è la condizione per cui un soggetto (individuale o collettivo) agisce ricevendo fuori da se stesso la norma e la ragione della propria azione, ovvero attribuendone dunque la colpa, la responsabilità, la vergogna etc. ad altri all’infuori di sé.

La chiave dell’esperimento si trova nella presenza di un’autorità riconosciuta, in questo caso il professore-coordinatore dell’esperimento stesso a cui il soggetto attribuisce le colpe e le conseguenze delle proprie azioni.
Il soggetto, nella veste di mero esecutore di ordini, abdica temporaneamente dalla propria coscienza, ed agisce contrariamente ad essa perchè non si ritiene responsabile del proprio agire, dal momento che si limita ad obbedire a delle indicazioni ricevute da una autorità.
In quel momento, il soggetto si trasforma in una parte della macchina che gestisce, e il centro direzionale è a lui esterno, e con esso anche il concetto di responsabilità.
Milgram in questo modo potè dimostrare che una persona “comune” può arrivare a compiere azioni terribili, se sente che gli ordini che guidano il suo agire arrivano da una autorità legittimata.
C’è quindi negli esseri umani una tendenza a riconoscere, in varie situazioni specifiche, dei leader a cui l’obbedienza è dovuta, e Milgram spiega questo meccanismo psicologico sostenendo che in parte è dovuto alla stessa composizione sociale della nostra civiltà, la cui dinamica complessa necessità obbligatoriamente delle strutture gerarchiche.
Ogni essere umano, inoltre, fin dalla più tenera età viene educato nel riconoscere ed obbedire alle autorità, a partire dall’ambito famigliare, per passare all’educazione scolastica, fino all’ambiente di lavoro, e tale abitudine viene talmente introiettata fino al punto in cui l’obbedienza viene anteposta alla propria stessa coscienza.

L’esperimento di Milgram dimostra infatti come capiti che gli ordini dell’autorità possano entrare in conflitto con i propri conflitti etici, e che quando questo accade, la grande maggioranza delle persone antepone l’obbedienza agli ordini al proprio sentire.
Questa obbedienza, ovviamente, occorre ribadirlo ancora una volta, presuppone la presenza di un leader riconosciuto, di un’autorità legittima.
Ed il grande gioco del potere, in tutti i tempi, è stato quello di inserirsi in questo meccanismo, e arrogarsi la legittimità della propria presenza nei centri decisionali, assumendo in sé anche la funzione di coscienza collettiva dei gruppi sottoposti.
Se ci si dovesse poi domandare su che cosa si fonda oggi il potere legittimo, non si potrebbe che riportare nuovamente la saggezza dell’eunuco Varys: «Il potere risiede dove un uomo crede che risieda. Nulla di più, nulla di meno

 

 

Lettura consigliata: Obbedienza all’autorità, Stanley Milgram

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Il Flusso del potere:

Il flusso del potere – Prologo
Il flusso del potere – parte I
Il flusso del potere – flash back
Il flusso del potere – parte II
Il flusso del potere – parte III
Il flusso del potere – secondo intermezzo: popolo e conformismo
Il flusso del potere – parte IV, Autorità, coscienza ed obbedienza.
Il flusso del potere – Epilogo