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-o- Too late to die young -o-
8 Agosto 2021

La deriva totalitaria e l'impossibilità di prenderne atto, una conseguenza del Progressismo


Uno dei più grandi errori concettuali del nostro tempo, che costituisce anche il principale motivo per cui la palese deriva totalitaria assunta dagli eventi non è contrastata dalla maggioranza della popolazione, consiste nella cieca “fede nel progressismo”.
L’idea della storia dell’umanità vista come un costante processo di miglioramento e di perfezionamento, l’idea di “progresso”, appunto, ci viene trasmessa in primis nella scuola dell’obbligo, ed è universalmente condivisa ed assimilata nel nostro bagaglio culturale, facente parte di quei punti fermi che difficilmente vengono messi in discussione.
A grandi linee, la storia dell’umanità dagli albori fino ai giorni nostri è vista come un lungo passaggio dalla barbarie e dalla disorganizzazione fino al perfezionamento della civiltà nelle sue più perfette forme di consenso sociale.
La democrazia stessa viene considerata come la naturale evoluzione dell’ organizzazione sociale, che nei millenni è passata da sistemi classisti ed oppressivi – monarchie, imperi, dittature – fino a forme di strutture comunitarie più libere, laddove il raggiungimento, infine, del potere esercitato direttamente dal popolo pone fine a millenni di ingiustizie.
Per molti secoli l’umanità ebbe una concezione differente del tempo: esso era visto come statico e ciclico, e vi erano realtà e situazioni che venivano considerate come facenti parte dell’ordine naturale delle cose, immutabili, fino alla fine dei tempi.
L’idea del tempo lineare, del progresso, è invece relativamente recente, e trae origine nel pensiero illuminista del XVIII secolo, l’epoca delle grandi rivoluzioni sociali e politiche, e venne in seguito trattata e consolidata anche a livello filosofico: a partire dall’idealismo Hegeliano, e lo Stato (nella sua accezione ottocentesca, quella da noi ereditata) visto come fine ultimo e massimo dell’organizzazione sociale, si è arrivati in tempi recenti alle conclusioni drastiche del politologo Francis Fukuyama, che addirittura sostenne che lo sviluppo storico e politico dell’umanità si poteva ritenere concluso verso il termine del XX secolo.

La fine della Storia, in altri termini, concetto che suscitò un grande dibattito agli inizi degli anni 90, in seguito alla pubblicazione del saggio chiave del pensatore statunitense.

L’idea quindi del progresso, ormai assimilata nel nostro bagaglio culturale quotidiano, presuppone che, per quanto imperfetta, l’umanità abbia superato nel corso della sua storia una serie di errori e di barbarie, perfezionandosi di volta in volta, e creando ogni volta società migliori, più libere, più aperte, più “progredite”.
Si pensi solamente, per offrire l’esempio più noto, al modo in cui ogni qual volta si assiste ad un evento considerato incivile o “retrogrado” si usi l’espressione “ritorno al medioevo”, con l’esplicita intenzione di rimarcare come la storia umana sia caratterizzata da un deciso avanzamento morale che ha lasciato alle spalle epoche oscure ed opprimenti in contrasto con un presente fatto di libertà, caratterizzata da un deciso avanzamento morale che ha lasciato alle spalle epoche oscure ed opprimenti in contrasto con un presente fatto di libertà, un presente che ha ormai superato tali idee prevaricatrici.
Il concetto di “progresso”, e quindi di costante avanzamento in ambito civile, politico e organizzativo, assume ancora maggiore valenza quando si entra nel campo della scienza: il solo fatto che attualmente disponiamo di una tecnologia che ci permette azioni inimmaginabili nel passato viene visto come prova finale e definitiva del fatto che la concezione lineare e progressista della storia umana non può essere messa in discussione.

Questa forma mentale, questa convinzione, in realtà nasconde diversi punti deboli, e questo lo si apprende proprio studiando in maniera approfondita i vari periodi storici, scoprendo che l’evoluzione sociale umana nei millenni fu tutt’altro che lineare, e che ad epoche più o meno oppressive se ne alternarono altre maggiormente liberari, e così via, senza una conseguenzialità obbligata; tale convinzione ,infine, cela in sè un grande pericolo, e proprio nei nostri giorni ne abbiamo una chiara dimostrazione.

L’idea infatti che i periodi “oscuri” ed “oppressivi” facciano parte del passato, e la convinzione che ci si trovi in un momento storico in cui quelle che vengono considerate libertà acquisite siano irreversibili, porta la maggior parte della popolazione, che per ovvi motivi possiede una conoscenza limitata ed a grandi linee dei processi storici, a sentirsi “al sicuro” dinanzi a possibili derive totalitarie nel proprio tempo, non riconoscendone i segni nel momento in cui tali processi si presentano in forma embrionale, e neppure quando raggiungono uno stadio avanzato.
Vi è diffusa la convinzione che certi processi appartengano esclusivamente al passato, proprio perchè felicemente abortiti dai percorsi storici e sociali e definitivamente accantonati.
Ecco quindi che quando i governi cosidetti “democratici”, e di conseguenza considerati per definizione “incapaci” di operazioni totalitarie, operano in maniera palesemente oppressiva, legalizzando la discriminazione sociale ed erodendo le libertà del singolo, quelle libertà fino a poco prima considerate “scontate”, tale processo non viene riconosciuto nella sua palese natura repressiva.
La convinzione che determinati processi appartengano al passato, convinzione instillata dal mito condiviso del “progresso”, rende incapaci di vedere la reale natura del sistema neo tirannico che va prendendo forma.

 

21 Aprile 2021

Da diritto a concessione: il ribaltamento del concetto di libertà

Non occorre essere veggenti per sapere già addesso cosa succederà in seguito alle prime riaperture “concesse” dal governo.
Le persone approfitteranno dell’allentamento delle catene per uscire di casa, per riprendere le vie delle città, per soffermarsi davanti alle vetrine dei negozi, per frequentare, ove permesso, bar e ristoranti.
I telegiornali in coro apriranno le loro edizioni avendo come prima notizia quella degli “assembramenti”.
Le riprese dalle varie città mostreranno strade affollate, viavai di persone per le vie dei centri abitati.
Verranno intervistati dei passanti che esprimeranno tutta la loro preoccupazione.
Il tema dominante sarà: “ci sono state concesse delle libertà, ma così rischiamo di rovinare tutto”, seguito da “quest’anno non ci ha insegnato nulla, con questo comportamento ci toccherà richiudere tutto presto”.
Questi saranno i concetti che ribadiranno ad nauseam anche tutti gli esperti e tutti i virologi invitati in prima serata nelle trasmissioni di “approfondimento”.
 
Ed in questa particolare narrativa si nasconde precisamente l’idea più insidiosa che è stata veicolata nel corso degli ultimi mesi, una idea pericolosa, che è stata instillata nelle menti della gente con costanza e reiterazione, come un chiodo percosso senza sosta, fatto penetrare giorno dopo giorno sempre più in profondità nel cranio della massa.
 
L’idea in questione consiste nel sostenere che le nostre libertà non siano scontate, naturali, intoccabili, ma che siano delle concessioni che arrivano dall’alto, e che da bravi sudditi dobbiamo dimostrare di aver “meritato”.
Nell’ultimo anno il concetto di libertà è stato totalmente ribaltato: quelli che prima erano diritti inalienabili del singolo, diritti basilari come quello di spostarsi liberamente, di avere una attività che permette una esistenza dignitosa, e di decidere personalmente sulla gestione del proprio corpo, si sono trasformati in privilegi che lo Stato rilascia in cambio di una buona condotta.
 
Lo stato naturale del singolo è risultato capovolto: prima si trattava di essere liberi, e nel caso in cui le regole della società fossero state infrante, se ne pagava le conseguenze.
Ora il punto di partenza è la prigionia, ed eventuali permessi vengono concessi come le giornate di libera uscita di cui usufruiscono i carcerati nei casi in cui dimostrano una buona condotta.
 
Il modo in cui tutto questo sia stato accettato ed introiettato in un periodo temporale talmente ristretto dovrebbe far riflettere sul modo in cui anche prima concepivamo il nostro modo di stare all’interno della società.
Così come merità profonda riflessione il modo in cui con tanta semplicità uno stato di prigionia generalizzata sia stato assimilato come lo stato naturale dell’esistenza.

18 Marzo 2021

L'instabilità mentale di Biden

A questo punto occorre andare oltre la dicotomia Biden-Trump, cercando di stabilire chi dei due candidati rappresentasse “il meno peggio”, e concentrarsi totalmente su Biden, sul fatto che una persona simile sia attualmente il Presidente della più grande potenza economica e militare del mondo.
Chiunque avesse seguito all’epoca la campagna elettorale negli Stati Uniti, e avesse assistito ai comizi di Biden, si sarebbe stupito di quanto il candidato democratico fosse in palese difficoltà.
Biden soffre di evidenti problemi cognitivi, non è in grado di completare una frase di senso compiuto, si dimentica costantemente del luogo in cui trova, non ricorda i nomi dei suoi collaboratori più stretti e delle persone che gli stanno intorno.
La situazione era assai palese a chiunque osservasse gli avvenimenti in maniera oggettiva, ma tutti i grandi mezzi di informazione, compattamente schierati contro Trump, si comportavano come se la questione non sussistesse.

Ora, ad elezioni vinte, qualche cronista timidamente si chiede il motivo per cui il presidente a tutt’oggi non abbia ancora affrontato alcuna conferenza stampa con i giornalisti, e se questo possa avere a che fare con questioni riguardanti lo stato della sua salute.

Sembra di essere catapultati all’interno della celebre fiaba del Re che se ne va in giro nudo, con tutti i sudditi che applaudono alla manificenza delle sue vesti, finchè un bambino, nella sua innocenza, fa presente che il Re non indossa nulla.
Qui invece si tratta di ammettere che il presidente è totalmente annebbiato da una grave forma di demenza senile.
Il fatto che una persona con questa grave forma di invalidità mentale possa essere stata scelta ed infine eletta alla carica più importante degli Stati Uniti la dice lunga sulla palese farsa che ormai rappresenta la democrazia nei paesi che si definiscono tali.
Gravi poi saranno le conseguenze se a questa persona si permette di fare commenti che riguardano la politica internazionale, come nel caso di questa intervista, dove Biden chiama assassino il presidente della nazione più potente al mondo, subito dopo la sua.

In tempo di pace un simile attacco non si era mai verificato, ed è chiaro che Biden non si rende nemmeno conto della portata delle sue parole.
Il suo discorso, più che di un presidente pare quello di un ubriaco al bar, e l’intero spettacolo è triste e penoso, oltrecchè preoccupante.
Diversi analisti sostengono che presto Biden verrà messo da parte, a causa delle sue condizioni di salute, e la presidenza andrà saldamente in mano alla sua vice Kamala Harris: questo, si sostiene, era il programma fin dall’inizio.
E di sicuro, se si arrivasse a tanto, la situazione non migliorerebbe, essendo la Harris espressione della corrente più guerrafondaia ed elitista del deepstate statunitense.

24 Febbraio 2021

Legalità e moralità

Donne arrestate per aver indossato costumi da bagno che violavano le normative. Chicago 1920

Non omne quod licet honestum est

Non tutto ciò che è lecito è onesto.
Ed allo stesso modo, non tutto ciò che la legge vieta è immorale.
Il concetto secondo il quale “ci sono delle leggi, vanno rispettate”, concetto che spesso viene ripetuto, specialmente in questo periodo di restirzioni, contiene indubbiamente una notevole fallacia.
Le leggi vanno rispettate se non si vuole incorrere in sanzioni, ma la loro mera esistenza non ne garantisce in automatico anche una intrinseca moralità.
La storia umana è attraversata da una lunga serie di governi e poteri vari che hanno imposto norme ingiuste ed abbiette, e non occorre spingersi indietro di secoli per ricordarne qualche esempio, nemmeno limitarsi a considerare i regimi cosidetti “tirannici”.
 
Negli Stati Uniti, paese simbolo della democrazia per eccellenza, ad esempio, fino al 1967 in certi stati erano ancora proibiti i matrimoni misti tra bianchi e neri.
Storicamente parlando, il 1967 è dietro l’angolo.
E anche all’epoca, dove vigeva la segregazione razziale, c’era chi affermava “è giusto che i neri stiano fuori da questo locale, ci sono delle leggi, vanno rispettate”.
 
Noi occidentali democratici di fine millennio siamo infine stati educati col pensiero che la questione delle “leggi ingiuste” appartenga al passato: l’idea che ci è stata trasmessa è che con una continua ed inarrestabile avanzata il progresso ci abbia finalmente portato in una era in cui la libertà e la democrazia hanno trionfato, in cui certe aberrazioni appartengono solo al passato, e che finalmente siamo giunti in un periodo in cui le leggi rappresentano il culmine della probità e della moralità.
 
Tutto questo in un momento storico in cui quelle stesse leggi limitano le basilari libertà degli esseri umani, dalla libertà di spostamento, di lavoro, di aggregazione.

E mai come oggi risuona stridente il vecchio mantra delle “leggi che ci sono e che vanno rispettate”.

 

12 Febbraio 2021

Non mi fido di te come vicino, ma mi fido di te come padrone: l'errore dello statalismo


“gli statalisti guardano il proprio vicino e pensano: Non mi fido di te come vicino, ma mi fido di te come padrone.”, ovvero l’assurda premessa della necessità di ogni “governo”

Molti di coloro che credono nello Stato lo descrivono apertamente come motivo per cui esso sia necessario: perché non ci si può fidare della gente, perché è nella natura umana rubare, litigare etc.
Gli statalisti spesso affermano che senza un’autorità vigilante, senza un “governo” che crei e faccia applicare le leggi della società a tutti, ogni discussione finirebbe in un bagno di sangue, non ci sarebbe cooperazione, il commercio cesserebbe del tutto di esistere, ci si troverebbe in una situazione di “ognuno per sé” e l’umanità degenererebbe in un’esistenza da cavernicoli stile Mad Max.
[…]
Tuttavia la scusa più comune per il “governo” – ovvero che le persone siano malvagie e abbiano bisogno di essere controllate – inavvertitamente manifesta la follia intrinseca a tutti gli statalismi.
In altre parole, se gli esseri umani sono così menefreghisti, stupidi e perfidi che non ci si può fidare che possano compiere la cosa migliore da soli, come potrebbe mai la situazione essere migliorata prendendo un sottoinsieme di questi stessi esseri umani menefreghisti, stupidi e perfidi e concedono loro il permesso della società di controllare gli altri con la forza?
[…]Gli autoritari non perseguono una mera riorganizzazione degli esseri umani, ma il coinvolgimento di una qualche entità sovrumana dotata di diritti e virtù che gli esseri umani non posseggono, che possa essere usata per tenere in riga tutti gli uomini inaffidabili.
[…]
Ciò che coloro che credono nello Stato vogliono davvero è un enorme e inarrestabile potere che venga usato per fare del bene.
[…]
Aspettarsi che il potere venga utilizzato solamente a beneficio di coloro che sono controllati e non di colui che controlla è ridicolo.
Ciò che lo rende ancora più folle è che gli statalisti sostengano che eleggere dei comandanti è l’unico modo per far fronte alle imperfezioni e all’inaffidabilità dell’uomo.
Gli statalisti guardano ad un mondo pieno di sconosciuti e dalle ragioni discutibili e di dubbia moralità e hanno paura di cosa questi possano fare.

Larken Rose, La più pericolosa delle superstizioni.

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Gli esseri umani si dividono in due grandi famiglie: coloro che sentono la necessità di una qualsivoglia forma di autorità, e coloro che l’autorità la soffrono.
Per la grandissima maggioranza del genere umano l’autorità, ovvero qualcuno che detta le regole, che indica e dirige l’agire delle persone, e che punisce chi contravviene alle regole comuni, è imprescindibile per una società “civile”.
Queste persone non vedono il potere come una imposizione: essere guidati, avere qualcuno che detta le leggi da seguire, per essi rappresenta una grande facilitazione nel vivere quotidiano.
Chi quindi considera legittima, e necessaria, la presenza di un potere, si limiterà a discutere, in maniera profonda, su quale sia il sistema politico che offra più garanzie di “giustizia”, sia più equo.
Dal lato opposto, ci sono le persone che giudicano ogni forma di potere come una imposizione.
Che non riescono ad accettare che altri esseri umani, pari a loro in dignità, impongano ad essi il loro volere.
Per questi ultimi, dovere sottostare agli ordini di qualcun altro, chiunque essi sia, senza il proprio consenso, equivale ad una forma di schiavitù.

Il dialogo tra questi due gruppi, quando viene affrontato il tema del “potere”, è pressoché impossibile, dal momento che il senso di oppressione percepito da chi non accetta l’autorità di un uomo su di un suo simile è qualcosa che va al di là di una mera questione “pratica”.
In fondo, l’accettazione del potere, il seguirne le indicazioni e l’inserirsi nel sistema così creatosi è un qualcosa che garantisce benefici materiali (ospedali, scuole pubbliche, forze dell’ordine, pensioni): è sufficiente seguire le regole che il potere indica.
L’insofferenza nei confronti del potere è invece un qualcosa che va al di là delle questioni pratiche e materiali, è una questione di principio che tocca a fondo la coscienza e la dignità stessa del singolo, e per tale motivo risulta un concetto difficilmente comprensibile da chi ha come priorità il quieto vivere e la “sicurezza”.

Si veda anche:
Tra libertà e sicurezza 
Autorità, coscienza ed obbedienza