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rondándome al oscurecer?


-o- Too late to die young -o-
15 Marzo 2010

Grecia, alle origini della crisi

Una breve analisi storico – sociale della realtà greca, alla ricerca delle origini della crisi attuale.


Da diverse settimane, ormai, la Grecia è al centro dell’attenzione mondiale, a causa della grave crisi economica che il paese sta attraversando.
Analisi più o meno accurate descrivono la situazione della nazione ellenica dal punto di vista quantitativo, ponendo l’attenzione sull’enorme debito pubblico e sul drammatico rapporto tra l’indebitamento e il prodotto interno lordo.
Le altre nazioni appartenenti all’area euro guardano nel frattempo con apprensione la situazione della Grecia, consapevoli che in tale momento di grande incertezza economica nessuno può dirsi immune da questo genere di pericoli.

Nelle scorse settimane, il governo greco, guidato da Yorgos Papandreou*, ha imposto alla popolazione misure decisamente drastiche, come il taglio di parte della tredicesima e della quattordicesima dagli stipendi dei dipendenti pubblici, l’aumento dell’iva dei prodotti in commercio mediamente del 2%, una sovrattassa su sigarette ed alcolici, nonché un considerevole aumento della benzina, passata in breve tempo dal costo di 1,10 euro al litro a punte di 1,50 euro.
Come conseguenza, la popolazione ha risposto, come c’era da attendersi, con ondate di scioperi generali che hanno paralizzato il paese per diversi giorni nell’arco dell’ultimo mese.
Tali sollevazioni sono viste da alcuni analisti come la reazione di un popolo vessato che non vuole pagare per le colpe degli speculatori e dei “supercapitalisti”.
Ma la realtà dei fatti è leggermente più complessa.

Sicuramente la crisi economica che sta attraversando la Grecia rientra perfettamente nel complesso mondiale della grande crisi del 2008, quella definitiva, destinata a cambiare per sempre il modello economico finanziario a cui siamo abituati, ma, oltre a questo innegabile fattore, la crisi in Grecia porta in sé un’altra crisi ancora più profonda, un disastro economico e sociale che ha origini molto lontane, vecchie di secoli, figlie di una cultura che ha assorbito in sé le influenze più distanti.

Per capire a fondo cosa realmente succede in Grecia occorre quindi fare un salto nel lontano passato, gettando uno sguardo su quell’impero che ebbe la sua capitale sulle rive del Bosforo.

L’Impero Bizantino non considerava se stesso il legittimo erede dell’ Impero Romano: l’Impero di Bisanzio era l’Impero Romano stesso.
Gli Imperatori di Bisanzio non vedevano nessuna frattura tra l’impero dei cesari ed il loro, e chiamavano se stessi romei
, ovvero romani.
Gli stessi abitanti della penisola greca, governata da Costantinopoli, si consideravano romani, e col termine ellinas
, greco, i cristiani bizantini si riferivano ai loro antenati idolatri, in maniera dispregiativa.
Ancora fino agli anni 60 del XX secolo era diffuso l’uso del termine “romiòs”
, romano, riferendosi ad un greco “autentico”, nato e cresciuto in Grecia.

Il meson, o tramite.

Fu quindi durante il periodo Bizantino che nacque una prassi destinata a caratterizzare l’organizzazione sociale greca fino ai giorni nostri, ovvero la pratica del “meson, il “tramite”.
L’Impero Bizantino era caratterizzato da un rigido centralismo
e da una pesante burocrazia, e gli abitanti delle provincie periferiche avevano grande difficoltà nel far giungere ai funzionari del palazzo le loro richieste e le loro lamentele.
Fu così che col tempo prese piede l’abitudine da parte dei sudditi dell’Impero di assegnare alla persona più autorevole della propria comunità il compito di recarsi nella capitale per far presenti le loro richieste; questo rappresentante delegato, il tramite, una volta giunto a Costantinopoli doveva farsi ascoltare a sua volta da altri personaggi influenti che avrebbero avuto il compito di interferire presso i consiglieri dell’Imperatore.

Si formava così una piramide gerarchica che partiva dall’Imperatore e a cui sottostavano gruppi sempre più ampi che facevano pressione a quelli immediatamente superiori.
Alla fine, chi si faceva ascoltare era il gruppo che aveva le conoscenze migliori, e poteva vantare il meson
più influente.
Questo sistema
, proseguito per secoli, è giunto pressoché immutato ai giorni nostri, ed ha saputo adattarsi perfettamente ai meccanismi della democrazia rappresentativa moderna.

Il sistema elettivo greco prevede infatti che ogni provincia elegga un certo numero di rappresentanti che andranno a formare la Vulì, il parlamento di Atene, e a differenza di quello che avviene in altri paesi, come ad esempio in Italia, i parlamentari greci hanno un contatto realmente diretto coi loro elettori.
A livello politico i Greci sono scarsamente interessati alle diatribe ideologiche, e il loro voto si fonda unicamente sul calcolo dei benefici che l’elezione di un certo parlamentare potrà portare
.
Così, nel periodo pre-elettorale, ogni greco entra in contatto con l’entourage del politico di turno e intavola delle trattative: chi può garantire l’apporto di una decina di voti, tra moglie, figli, vecchie zie e parenti vari, ad esempio, potrà chiedere in cambio l’assunzione del figlio in un posto pubblico, o altri favori simili.
Nel complesso, la quasi totalità dei greci possiede almeno un conoscente che funge da meson
,  di alto o medio livello, ed in tal modo tutti sono coinvolti nelle vicende politiche del paese in modo diretto.

Al termine delle elezioni, quindi, i parlamentari eletti del partito vincitore sono tenuti a tener fede alle promesse, e questo puntualmente avviene.
Si assiste così, inevitabilmente ad ogni cambio di governo, un discreto licenziamento di statali assunti dagli avversari politici a cui si sostituiscono i propri raccomandati.
Ancora più frequentemente, vengono creati posti pubblici dal nulla per poter accontentare tutte le promesse elettorali: in questo modo, il numero degli impiegati pubblici in Grecia ha raggiunto una cifra totalmente slegata dalle reali necessità del paese, con la presenza di in media tre/quattro lavoratori che svolgono il compito che potrebbe essere portato a termine da uno solo di loro.

Va da sé che in un simile sistema la corruzione sia la norma, tanto da essere diventata prassi usuale ed accettata a tutti i livelli della società: pagare degli extra per ricevere servizi dalla pubblica amministrazione è ritenuto normale, dagli sportelli del fisco fino alle bustarelle ai medici degli ospedali pubblici (per questi ultimi vi sono anche dei tariffari ufficiosi:  500/600 euro da pagare al chirurgo che compie una operazione, 50 euro all’anestesista, 50/100 euro agli infermieri per essere trattati umanamente).
La Grecia di oggi è quindi essenzialmente un paese che produce poco, la cui ricchezza reale giunge dai proventi del turismo e dell’agricoltura, e dove la maggioranza dei lavoratori è assunta in impieghi ottenuti  tramite raccomandazioni, lavori spesso senza alcuna utilità creati appositamente per dare una occupazione alla popolazione.

Ma tutto questo rappresenta solo una parte delle origini della situazione greca.
Per comprendere ulteriormente la situazione attuale, occorre nuovamente spostarsi nel passato.

La vita giorno per giorno


Nei primi secoli del II millennio, mentre l’Europa Occidentale conosceva un periodo di lento ma costante sviluppo economico e sociale, le provincie amministrate dall’Impero Bizantino sperimentavano una economia prettamente agricola dal basso rendimento e gravata dall’imposizione delle tasse del governo centrale, il che portava la maggioranza della popolazione a vivere ai limiti della sussistenza.
All’incirca dal XII secolo in poi, inoltre, l’Impero Bizantino entrò in una crisi irreversibile, impegnato in una dura lotta per la propria sopravvivenza, una lunga agonia che condurrà alla sua definitiva scomparsa per opera dei turchi ottomani, che entrarono da conquistatori in Costantinopoli nel 1453.

Con la conquista ottomana, quindi, nel medesimo periodo storico in cui l’occidente sperimentava il Rinascimento, la Grecia e i Balcani cadevano sotto un dominio straniero, e i nuovi padroni si dimostrarono ancor più disinteressati rispetto al precedente impero delle sorti e del miglioramento delle condizioni di vita delle genti sottomesse.
Nei Balcani il tempo quasi si fermò per quattro secoli, e la Grecia rimase pressoché estranea a tutte le rivoluzioni sociali che nel frattempo si manifestavano nel resto d’Europa.
La guerra d’indipendenza greca del 1821 e il successivo formarsi dello stato greco videro quindi l’entrata ufficiale in Europa di una nazione che poco aveva in comune coi suoi vicini occidentali.

I greci avevano mantenuto la propria identità essenzialmente attorno alla propria fede ortodossa, ma culturalmente il popolo greco era un complesso amalgama di tradizioni occidentali ed orientali: i greci erano  europei ed asiatici nello stesso tempo, come ancora testimonia la musica popolare, e costituivano una nazione i cui membri nella loro grande maggioranza nulla avevano in comune con la mentalità imprenditoriale – produttiva dell’Europa centrale.
La stessa rivoluzione industriale in Grecia non è mai giunta
, e il paese si presenta tutt’ora con un settore secondario poco sviluppato.

Da sempre abitanti di una nazione sostanzialmente povera,  i greci svilupparono un loro particolare approccio alla vita, fondato essenzialmente sul vivere alla giornata e sul godere dei pochi averi nel presente, in una dimensione temporale che lasciava poco spazio al futuro remoto.

Questa era ancora la Grecia quando arrivò il periodo del grande cambiamento, la reale anticamera della crisi scoppiata oggi.
Era la fine degli anni 70, e la Grecia era ancora caratterizzata da una certa povertà diffusa dai tratti dignitosi, dal momento che perlomeno era stata raggiunta l’autosufficienza alimentare.
Tutto cambiò nel 1981, con l’entrata della Grecia nella comunità Europea.

La grande festa europea

La Comunità Europea all’epoca era composta da stati economicamente forti, dotati di un settore secondario altamente produttivo e competitivo.
La Grecia entrava nella famiglia come il parente povero, bisognoso di sostegno per raggiungere lo status degli altri membri.
E gli aiuti arrivarono, assai copiosi, sotto forma di sovvenzioni.
Iniziò quindi negli anni ottanta un flusso notevole di fondi europei che giungevano in Grecia per fare in modo che venissero compiuti gli investimenti necessari per l’ammodernamento del paese.

E i Greci, nella grande maggioranza, dai politici più altolocati fino ai dipendenti pubblici e ai contadini, fecero quello che farebbe chiunque non avesse mai avuto soldi tra le mani e si ritrovasse all’improvviso a gestire un certo patrimonio: fecero festa.
I soldi delle sovvenzioni , invece che investiti, venivano distribuiti nei diversi livelli della scala gerarchica: i politici altolocati si prendevano la fetta maggiore, e poi via via scendendo fino alle classi più umili.
Tutti, però, ebbero la loro fetta.

La Grecia, in questo modo, nel giro di venti anni raggiunse lo status sociale delle altre nazioni europee: si diffusero le automobili, i vestiti di marca, si ammodernarono le città e le abitazioni, e ci si divertiva molto.
l settori della ristorazione e dello svago prosperarono.
Il tutto, però, veniva fatto con soldi che non riflettevano il vero stato della ricchezza della nazione.
Nel frattempo, per sostenere il nuovo status raggiunto, il debito pubblico cresceva in maniera esponenziale, senza sosta e senza ritegno, finché, con lo scoppio della crisi, e il livello del debito totalmente fuori controllo, la realtà ha bussato alla porta della Grecia.

Ecco quindi l’origine della situazione ellenica attuale, una situazione in cui nessuno è a suo modo “innocente”.
Ovviamente, le colpe dei governanti, corrotti oltre ogni limite mentalmente immaginabile e totalmente incoscienti nel guidare una intera nazione al baratro, sono in proporzione enormemente maggiori rispetto a quelle del singolo cittadino che semplicemente si è ritrovato dentro un gioioso bengodi.
La colpa delle persone comuni, semmai, è stata quella di non aver mai riflettuto sull’origine della propria ricchezza,  e di aver accettato senza eccessive rimostranze la pratica di corruzione generale, nonché il sistema di favori diffuso ad ogni livello, considerando normale e socialmente accettabile trovare un lavoro fisso presso un ente pubblico grazie alla raccomandazione del proprio meson, oppure dover pagare bustarelle per poter sbrigare perfino le più piccole pratiche burocratiche.
Ed è per questo, ed è un parere di greco sui greci, che non occorre commuoversi troppo alla vista dei manifestanti che ora scendono per strada affinché sia garantito il livello di vita a cui si erano abituati.

La festa è finita, e da veri greci non resterà altro che ri-abituarsi a vivere alla giornata, tornare a coltivare i campi – compito delegato negli ultimi anni esclusivamente a rom ed extracomunitari – e magari prendere in mano il bouzouki e scrivere una bella penià** sui bei tempi che abbiamo passato, dopo esserci divertiti al ritmo del tsifteteli***.

 

*figlio di Andreas Papandreou, fondatore del partito socialista greco, a sua volta figlio di Yorgos Papandreou, altro storico protagonista della politica greca della prima metà del XX secolo. In Grecia la democrazia garantisce a determinate famiglie la tenuta del potere molto meglio di quanto potè fare la monarchia coi re del XIX e del XX secolo

**canto malinconico in cui si esprime il proprio dolore e ci si lascia andare ad una certa, dignitosa, autocommiserazione.

***diretto discendente della danza del ventre orientale, è il ballo a cui più volentieri si lasciano andare le giovani donne greche nei locali di divertimento.

 


Si veda anche:
– Cosa succede in Grecia?
– La crisi e i turchi sotto le mura

 

12 Marzo 2010

The green screen illusion

La vista è il nostro senso più prezioso, ed è anche quello che più facilmente si può ingannare.


10 Marzo 2010

Il paradosso del potere


Coloro che sostengono la necessità dell’esistenza di un potere centrale sono soliti giustificare la loro convinzione partendo dal presupposto hobbesiano dell’homo homini lupus.
L’essere umano, in altre parole, sarebbe di natura principalmente egoista e violenta, e lasciato solo a se stesso sarebbe naturalmente portato a nuocere ai propri simili, prevaricandoli quando possibile, sopraffacendoli ogni qual volta dovesse averne occasione.
In questa visione, un mondo senza un potere centrale forte, capace di garantire l’ordine e il rispetto delle leggi, sarebbe un mondo violento in preda al caos, poiché l’unico motivo che spingerebbe gli uomini a comportarsi civilmente consisterebbe nella paura della punizione.
Ma se la premessa di tale ragionamento fosse esatta, e gli uomini fossero davvero degli esseri egoisti prevaricatori e crudeli, allora l’affidare ad un gruppo di loro il potere di disporre delle vite dei loro simili sarebbe un’ azione sconsiderata.
I governanti, infatti, essendo egoisti e violenti, in quanto uomini, approfitterebbero del loro status per operare in modo malvagio senza il timore di essere puniti.

E’ quindi facilmente dimostrato che invocare un potere centrale forte come contromisura per placare la presunta ferocia dell’essere umano è atto estremamente incoerente, azione che porta inevitabilmente al verificarsi dello scenario che si voleva evitare, incrementandone oltretutto esponenzialmente gli effetti nefasti.
Se invece si volesse sostenere che i governanti siano esenti dagli istinti egoisti della maggioranza , tale asserzione risulterebbe talmente inconsistente da non meritare nemmeno di essere confutata: non a caso, in ogni epoca storica i peggiori criminali e sociopatici si sono sempre manifestati tra i detentori del potere.

Ma l’intero discorso è fallace in partenza: l’idea stessa di una umanità composta da bestie incontrollabili schiave dei propri istinti omicidi altro non è che propaganda millenaria da sempre usata dai detentori del potere, avente come scopo il giustificare la loro presenza e i loro privilegi all’interno delle comunità.
La maggioranza degli esseri umani, infatti, è composta da individui desiderosi solamente di condurre esistenze tranquille, preferibilmente prive di preoccupazioni materiali, il più possibile pacificamente all’interno del loro contesto sociale.
Non si tratta di una utopica e fantasiosa bontà innata dell’uomo, ma più semplicemente di un naturale istinto di cooperazione, dal momento che gli esseri umani traggono maggiore vantaggio nel collaborare coi propri simili che nell’attaccarli violentemente.

Inoltre, per quanto siano innegabilmente numerosi i difetti e le meschinità di vario grado che caratterizzano ogni singolo essere umano, esiste un sentimento di empatia naturale comune alla maggioranza delle persone, e si tratta propriamente del sentimento di identificazione, quel com-patire che porta il singolo ad immedesimarsi con le sofferenze del suo simile.
Si tratta di un sentimento che può essere più o meno forte, più o meno presente, e che in alcuni contesti si sviluppa maggiormente che in altri.
E per quanto possa essere affievolito, per quanto i sentimenti peggiori possano prevalere nell’animo umano, solo una piccola minoranza di individui arriva al punto di prevaricare fisicamente i propri simili.
Ed è proprio questa minoranza a rappresentare il vero problema di ogni comunità, grande o piccola che sia.

In un contesto ideale la maggioranza pacifica potrebbe essere in grado di isolare questa minoranza, ma questa possibilità viene a meno nel momento in cui la minoranza violenta, composta essenzialmente da psicopatici, riesce ad organizzarsi in modo di poter imporre il suo volere sui molti.
E questo è esattamente lo scopo di ogni potere centrale.
Il potere centrale forte, in altre parole, è il modo in cui la minoranza di violenti e psicopatici riesce a governare ed a tenere a bada la maggioranza degli individui pacifici.
In un secondo momento, coloro che detengono tale potere per giustificare la loro posizione dominante sosterranno la tesi secondo la quale gli uomini hanno necessità di essere governati per evitare che si rechino danno tra loro.

In altre parole, se davvero la maggioranza degli esseri umani fosse composta da egoisti e prepotenti, allora la creazione di un potere centrale equivarrebbe a fare in modo che alcuni tra questi violenti abbiano la possibilità di esercitare la loro malvagità senza alcun limite, dal momento che viene loro garantito il monopolio sulla violenza stessa.
Se invece gli individui crudeli ed asociali componessero una piccola minoranza, la presenza di un potere centrale autorizzato a disporre della vita della comunità rappresenterebbe la perfetta occasione per quei pochi psicopatici di imporre il loro dominio sulla maggioranza.
In ogni caso, l’esistenza di un tale potere, che usufruisce del monopolio sulla violenza, non può che avere come conseguenza l’ascesa ai vertici di comando degli elementi peggiori di una società.

si veda anche: Psicopatici e potere

8 Marzo 2010

Statalismo masochismo




Scrive Michele Serra su Repubblica:

 

Avrei bisogno anche io di un «decreto interpretativo» che mi chiarisse, finalmente, perché ho sempre pagato le tasse. Perché passo con il verde e mi fermo con il rosso. Perché pago di tasca mia viaggi, case, automobili, alberghi. Perché non ho un corista vaticano di fiducia che mi fornisca il listino aggiornato delle mignotte o dei mignotti. Perché se un tribunale mi convoca (ai giornalisti capita) non ho legittimi impedimenti da opporre. Perché pago un garage per metterci la macchina invece di lasciarla sul marciapiede in divieto di sosta come la metà dei miei vicini di casa. Perché considero ovvio rilasciare fattura se nei negozi devo insistere per avere la ricevuta fiscale. Perché devo spiegare a chi mi chiede sbalordito «ma le serve la ricevuta?» che non è che serva a me, serve alla legge. Perché non ho mai dovuto condonare un fico secco. Perché non ho mai avuto capitali all´estero. Perché non ho un sottobanco, non ho sottofondi, non ho sottintesi, e se mi intercettano il peggio che possono dire è che sparo cazzate al telefono.
Io – insieme a qualche altro milione di italiani – sono l´incarnazione di un´anomalia. Rappresento l´inspiegabile. Dunque avrei bisogno di un decreto interpretativo ad personam che chiarisse perché sono così imbecille da credere ancora nelle leggi e nello Stato

 


Una risposta arriva dal blog Abr’s No Comment:

 

A gentile richiesta eccolo qui il “decreto interpretativo” ad usum cojones centralisti:

– le tasse le paghi perchè da buon statalista credi nella “redistribuzione” e nel “ruolo sociale” dello Stato: hai sempre VOLUTO pagarle, affinchè altri ne pagassero di più.

– Interessante scampolo di mentalità centralista: ritenere che si passi col verde e ci si fermi col rosso per “seguire le rregole” cioè evitare le sanzioni stataliste, non perchè banalmente e positivamente CONVIENE A TUTTI.

– Again, interessante scampolo di mentalità centralista: l’uomo è cattivo, può essere ridotto alla ragione – pagare per il lavoro e i beni altrui – solo dalla Forza dello Stato. A noi invece un tal Smith ci ha banalmente spiegato che onorare contratti privati CONVIENE. Cioè crediamo che esser razionali equivale ad esser “buoni”, senza bisogno di eccessi repressivi Hobbesiani.

– Sul corista del Vaticano: ah sarebbe reato procurare-procurarsi la fi.. o il cu…, e al limite pagare per? Falsi moralisti da strapazzo.

– Sui legittimi impedimenti: ad alcuni livorosi nostalgici delle gogne medievali eccita, io invece non sopporto veder chiunque ridotto a Kafka convocato a giustificarsi davanti al Sinedrio. Potrei essere io.

– Perchè il garage: i vicini di casa che parcheggiano in divieto approfittano delle inevitabili inefficienze dello Stato Regolatore che costui sostiene a spada tratta. Contraddittorio.

– Fatture, ricevute: se si volesse per davvero che funzioni, dovrebbe servire all’individuo per scaricarsi le spese dalle tasse, unendo fruizione e controllo. Invece i Centralisti statalisti privilegiano la burocrazia repressiva da mantenere al corretto funzionamento.

– No condoni: nemmeno io ho mai condonato, ma credo che uno dovrebbe esser libero di far quel che crede con le sue proprietà.  Ovviamente non la vede così chi pensa che la proprietà (soprattutto quelle degli altri) sia in realtà dello Stato, affidata agli individui ad interim.

– Esportazione capitali: perchè le loro idee del cazzo e le loro deiezioni dovrebbero essere esportabili e i capitali no? Perchè c’è chi ritiene che essi non siano PRIVATI ma dello Stato e lì debbano rimanere, a disposizione.

– “Io non ho niente da nascondere, intercettatemi pure”: è l’affermazione dei laidi, di quelli che amerebbero mettere in piazza e alla gogna i fatti altrui.

Tu Serra – insieme ad altri milioni di italiani –  sei l’incarnazione dell’abominio centralista repressivo. Rappresenti il conformismo, l’ovvio. Avresti bisogno di un decreto interpretativo ad personam che ti chiarisse perchè sei così imbecille da credere ancora NELLO STATO.


4 Marzo 2010

La bancarotta degli stati sovrani

 

Qualche tempo fa:


CRISI MUTUI: BERNANKE, FED NON VEDE RISCHIO RECESSIONE

L’economia Usa rallentera’ il passo ma la Fed non vede il rischio di recessione ne’ di ritornare alla ‘stagflazione’ degli anni ’70.
Lo ha detto il numero uno della banca centrale Usa, Ben Bernanke, nel corso di un’audizione al Congresso, sottolineando che l’economia americana riprendera’ a crescere a un tasso “piu’ ragionevole” dalla prossima primavera.

 

Era il Novembre del 2007, la grande crisi doveva ancora manifestarsi in tutta la sua entità, ma già gli esperti e le fonti autorevoli facevano a gara per rassicurare i mercati.
“Nessuna crisi all’orizzonte, qualche piccola flessione che si risolverà entro il 2008”.
Poi la crisi arrivò davvero, cogliendo di sorpresa le grandi firme dell’Economist e del Financial Times, del Sole 24 ore e del Corriere della Sera: “Non potevamo prevedere”, dissero gli  autorevoli economisti.
Eppure, sarebbe bastato dare un’occhiata a qualche sito di controinformazione, uno dei tanti che da qualche anno addietro annunciavano e descrivevano per filo e per segno quello che stava per succedere; non occorreva essere né maghi né indovini, d’altra parte, nello stesso modo in cui non occorre essere dei veggenti per affermare che un masso che rotola dalla montagna prima o poi arriverà a valle.

Così la crisi giunse davvero, e, tra panico e rassicurazioni, per qualche tempo un’incertezza diffusa si sparse per il globo.
Era il 2008, e mentre le solite fonti autorevoli si impegnavano a infondere ottimismo sulla ripresa, sul versante opposto si scatenavano coloro che preannunciavano gli scenari più catastrofici.

Questi ultimi sostennero che la crisi fosse sistemica, che la caduta fosse irreversibile, che grandi sconvolgimenti avrebbero avuto presto luogo.
In questo campo, si distinse ben presto l’analisi del gruppo di studio LEAP/E2020, composto da un team di esperti nel ramo economico che a differenza dei loro colleghi “colti di sorpresa” avevano saputo prevedere le tappe della crisi finanziaria con grande anticipo, ed in modo alquanto dettagliato.
Le accurate previsioni, in un campo in cui in pochissimi avevano saputo interpretare i segnali economici globali, aumentarono la fama e il prestigio dei ricercatori del LEAP/E2020 e i bollettini periodici emessi dal gruppo vennero letti con sempre maggiore attenzione.

Le previsioni del LEAP, così come quelle di molti analisti indipendenti, non furono quindi per nulla ottimiste: per il 2009 venne pronosticata un’aggravarsi della crisi, e vennero ritenuti altamente probabili fallimenti di interi stati, rivolte sociali, disordini, e non ultime possibili guerre di vasta scala.
Ma tutto questo non avvenne nel 2009.
Sembrava quindi, e sembra ancora, che le cosiddette “cassandre” avessero avuto torto, e che tutto sommato, in un qualche modo, anche da questa crisi prima o poi se ne uscirà fuori, senza bisogno di sconvolgimenti epocali.

Ma cos’era successo, nel frattempo?
Occorre qui fare delle importanti precisazioni.
Tutti coloro che avevano previsto una crisi sistemica, con gravi ed irreversibili conseguenze, non avevano fatto altro che analizzare i dati economici a loro disposizione e trarne le conseguenze.
In sintesi, si trattava semplicemente di osservare come i debiti pubblici dei paesi industrializzati dell’occidente fossero ormai fuori controllo, e come fosse impossibile rimettere in sesto le loro economie, considerato il livello raggiunto dai deficit e dal contemporaneo verificarsi di una serie di ulteriori fattori, quali il crollo dei consumi, la difficoltà delle banche, il fallimento di importanti agenzie assicurative, lo scoppio della bolla immobiliare.
In altre parole, coloro che vennero chiamati “catastrofisti” non fecero altro che trarre le logiche conclusioni stante l’evolversi della situazione in atto.

Quello che invece i catastrofisti non riuscirono a prevedere, e che cambiò completamente le carte in tavola, fu la reazione del governo statunitense e l’operato della Fed: l’inaudito intervento di soccorso alle grandi banche tecnicamente fallite ed al sistema finanziario nel suo complesso fu una mossa che pochi avrebbero immaginato, considerata l’entità dell’intervento stesso.

 

(confronto tra la spesa del governo statunitense nei 12 mesi centrali della crisi con le spese sostenute nei precedenti 206 anni)

Il governo degli Stati Uniti, dove la crisi stava per dare il colpo finale al complesso sistema finanziario internazionale, ha saputo con un atto disperato e potenzialmente suicida allontanare il momento del crollo finale, rendendo però il futuro istante della resa dei conti ancora più tragico.

Non vi è infatti logica alcuna nel pensare di risolvere una profonda crisi causata dall’esplosione del debito per mezzo della contrazione di ulteriore debito.
Eppure, è proprio quello che è stato fatto.
In questo modo, nonostante nel 2009 l’economia reale abbia incrementato il suo livello di sofferenza, si sono evitati gli scenari più catastrofici; ma il problema iniziale non è stato risolto, semmai accentuato.

Nell’osservare quindi gli sviluppi della crisi economica attuale, e i bilanci degli stati, la domanda che sorge è la seguente: gli stati sovrani possono fallire? E se falliscono, quali sono le conseguenze per le persone comuni?
La prima domanda andrebbe in verità posta in maniera differente.
Sappiamo già infatti che gli stati sovrani possono dichiarare bancarotta: è successo all’Argentina nel 2001, ad esempio.
Ma per quanto si tratti di una economia importante a livello mondiale, quella argentina non è minimanete paragonabile a quella statunitense.
Così, la vera domanda diventa: gli Stati Uniti, l’Inghilterra, i paesi dell’area dell’Euro, possono dichiarare bancarotta?
Quali fattori devono verificarsi affinché questo succeda?

Già adesso, ad esempio, il debito pubblico degli Stati Uniti è totalmente fuori controllo, impossibile da ripagare, il che fa di quella americana una nazione a tutti gli effetti insolvente.
Pare però che l’abnorme dimensione di un debito pubblico non sia condizione sufficiente per determinare il default di una nazione.
Molti economisti, inoltre, sembrano ridimensionare tale questione.
Ecco ad esempio come si esprimeva il premio nobel per l’economia Paul Krugman, in un articolo pubblicato sul suo blog in cui metteva a confronto il debito pubblico in rapporto col PIL degli Stati Uniti con quelli del Belgio, del Giappone e dell’Italia, sottolineando come queste nazioni fossero “messe peggio” degli States:

 

La gente si chiede: “Perchè dovremmo paragonarci con Belgio e Italia? Quei due Paesi sono un casino”. Uhm, ragazzi, questo è il punto. Il Belgio è politicamente debole, perchè diviso linguisticamente. L’Italia è politicamente debole, perchè è l’Italia. E se questi Paesi possono gestire il loro debito che è oltre il 100% del Pil, anche noi possiamo.


In altre parole, per Krugman la spropositata dimensione del debito pubblico non doveva preoccupare.
Secondo la sua accurata analisi da premio nobel dell’economia, infatti, dal momento che altri sopravvivevano con tali sbilanci, anche gli Stati Uniti avrebbero potuto farlo.

Eppure, lo stesso Krugman, nel lontano 2004, mostrava una minore voglia di scherzare:

 

L’Argentina, un tempo prototipo del nuovo ordine mondiale, è istantaneamente diventata sinonimo di catastrofe economica.
Che cosa possiamo dedurne? Quanti di noi hanno postulato che la sconsideratezza della recente politica americana possa provocare un disastro analogo sono stati liquidati come individui assillanti, in qualche caso addirittura isterici.[…]
Proiezioni più realistiche, infatti, evidenziano nel prossimo decennio un aumento colossale del debito, che si aggraverà ulteriormente quando i cosiddetti baby boomers (i figli del “boom”) andranno progressivamente in pensione in massa.
Ma per gli apologeti dell’Amministrazione, che a dispetto dell’evidenza continuano a sostenere di avere un “piano” per dimezzare il deficit, queste sono sempre soltanto chiacchiere, se non una sorta d’anatema.
Qualcosa di nuovo, però, c’è, ed è quello che Rubin ed i suoi colleghi hanno scritto in merito alle possibili conseguenze. Invece di focalizzare la loro attenzione sul danno che il deficit infliggerà gradualmente, essi hanno messo in rilievo una potenziale catastrofe.
Così ammoniscono: «I considerevoli deficit esistenti possono influenzare gravemente e negativamente le aspettative e la fiducia, e ciò a sua volta potrà innescare una sorta di circolo vizioso negativo nello strisciante deficit fiscale, nei mercati finanziari e nell’economia reale… I costi potenziali e le possibili ricadute di un simile sconvolgimento fiscale e finanziario potrebbero con ogni probabilità costituire la motivazione più forte per cercare di evitare simili considerevoli deficit di budget.”
Detto in altri termini: piangi pure per noi, Argentina. Stiamo per fare la tua stessa fine.
[…]Ciò che Rubin afferma adesso, e che Mankiw affermava quando era un indipendente, è che la tradizionale immunità di paesi sviluppati come l’America alle crisi finanziarie da Terzo Mondo, non è un diritto inalienabile.
I mercati finanziari ci concedono il beneficio del dubbio soltanto perché hanno fiducia nella nostra maturità politica nella volontà da parte dei nostri leader di fare tutto ciò che è necessario per tenere a freno i deficit, pagando di persona, se occorre, il costo politico che ciò comporta. In passato questa fiducia è stata ben riposta.
Persino Ronald Reagan alzò le tasse, dopo che il deficit del budget si era impennato. E noi? Abbiamo ancora quel grado di maturità?

 

Quindi, l’autorevole economista Paul Krugman che attualmente non si preoccupa molto del deficit statunitense, e che ha anche vinto un nobel dopo aver sostenuto la necessità di aumentare la spesa pubblica per uscire dall’attuale crisi, nel 2004 era iscritto nella schiera dei catastrofisti, e prospettava scenari da tragedia nell’eventualità in cui il debito pubblico non fosse stato messo sotto controllo.

Ovviamente, le persone possono anche cambiare idea nel corso degli anni, ma si suppone che un economista abbia almeno una vaga idea di come funzionino i fondamentali nella gestione degli stati.
In altre parole, il debito pubblico fuori controllo porta alla bancarotta, come sosteneva nel 2004, oppure ci si può ridere sopra, come invece ha fatto nel 2009?
Per Paul Krugman la risposta è semplice: la spesa fuori controllo è una disgrazia se attuata dai repubblicani, ma diviene salvifica e necessaria se operata da Barack Obama.
Sia chiaro, se ci si occupa di Paul Krugman, nonostante l’evidente confusione che emerge dalle sue analisi nel tempo, è solo perché ad egli è stato assegnato il premio nobel dell’economia: si tratta di una prova, in pratica, del fatto che per comprendere le attuali dinamiche le voci “autorevoli” valgono quanto tutte le altre, se non meno.

Tornando quindi alla questione iniziale, è possibile stabilire se l’eventualità di un fallimento di uno stato sovrano del calibro degli Stati Uniti sia effettivamente plausibile?
Una risposta potrebbe venire da un altro attore autorevole del grande gioco finanziario internazionale, ovvero Alan Greenspan, l’ex presidente della federal reserve statunitense e per anni vero Deux ex machina delle politiche economiche della nazione americana.

 

Nel 1999, in un articolo accademico rimasto a lungo segreto, due noti economisti, Alan Greenspan e Pablo Guidotti, avevano espresso la formula con cui pronosticare con precisione il momento ed il livello in cui diviene manifesta l’insolvenza sul debito pubblico di un Paese.
La formula, detta regola di Greenspan-Guidotti, prevede che un Paese deve detenere riserve convertibili almeno pari al 100 % delle scadenze di debito che maturano a breve.
Gli Usa hanno 8133,5 tonnellate di oro che secondo l’autore valevano – due mesi fa – circa 300 mld $.
Il petrolio detenuto dalla Riserva strategica Usa è di 725 mila barili che secondo l’autore valevano  – e valgono – 58 mld $.
Inoltre secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi) gli Usa hanno 136 mld $ di riserve valutarie.
Il totale è circa 500 mld $ (455,5 mld $ secondo AsiaNews).
Se il debito pubblico è per il 44 % di proprietà straniera, su 2mila mld $ di debito in scadenza, circa 880 mld $ di debito è detenuto da stranieri.
I risparmi americani annualmente ammontano a circa 600 mld $.
Se il totale del debito da collocare (debito da rifinanziare più nuovo debito) nell’anno è di 3500 mld $ [3600 mld $ secondo noi] e pur ipotizzando che tutto il risparmio USA scelga i BOT (“Treasuries”), rimangono da collocare nell’anno circa 3 mila mld $.
Da dove proverrà tale ammontare ?


Ancora una volta, quindi, ci troviamo di fronte ad uno scenario apparentemente già scritto: gli Stati Uniti sono destinati al default, ed in brevissimo tempo.
Ma, di nuovo, potrebbe risultare azzardato fare simili pronostici, dal momento che è ormai chiaro che vi sono forze in gioco che sono in grado di riscrivere a loro piacimento le regole della gara, mutando inevitabilmente l’evolversi degli eventi.
Nonostante, quindi, la situazione sia già segnata, e la bancarotta sicuramente inevitabile, i tempi e i modi in cui tutto questo si verificherà rimangono non prevedibili.
E’ certo che il masso che rotola dal monte arriverà a valle travolgendo l’abitato, ma in uno scenario con tante incognite non è per adesso possibile calcolare il momento dell’impatto.